Da anni le vicende politiche – non solo italiane – pongono alle persone della mia generazione un inquietante interrogativo: le classi lavoratrici (un termine più realistico e meno ideologico di “classe operaia”) costituiscono ancora un soggetto sociale promotore e garante del progresso? Le loro istanze rappresentano ancora il “passaggio a nord ovest” verso la libertà e la giustizia? Rispondere in modo affermativo a queste domande sarebbe senz’alcun dubbio un riflesso di un’ideologia che non si misura più con la realtà. Una risposta negativa risulterebbe semplicistica, proprio perché le classi lavoratrici non sono più una componente omogenea riconducibile interamente al fronte dell’innovazione o della conservazione.
Si fa presto ad affermare che i lavoratori, negli Usa, hanno assicurato la vittoria di Donald Trump, mentre in Europa sono in gran parte schierati con i movimenti populisti. Di certo, come ha sostenuto Emmanuel Macron nella sua campagna elettorale, le differenze tra destra e sinistra sono molto sfumate, divenute incerte, spesso intercambiabili. In Francia, infatti, il Front National ha un programma chiaro definito in “144 impegni”, tra cui un aumento dei salari più bassi pari a 200 euro, la “reintroduzione della moneta nazionale” (ma non l’uscita dall’euro), un referendum sulla “Frexit”, una tassa del 3% sulle importazioni, il ripristino dell’età pensionabile a 60 anni (40 anni di contribuiti). Una linea di “patriottismo economico” (“On est chez nous”, padroni a casa nostra) per un partito che ha quadruplicato i consensi dal 2009 al 2014. Molti dei consensi del Front National sono stati raccolti sulla base dello slogan “tous pourris” (“i politici sono tutti marci”). Roba da “grillini”, no?
Dal canto suo il partito socialista, dopo la rinuncia alla candidatura per un secondo mandato dell’attuale presidente Francois Hollande, ha visto Benoit Hamon prevalere sul premier uscente Manuel Valls. Il voto per Hamon, nelle primarie socialiste, ha rappresentato, da una parte, la voglia di facce nuove e, dall’altra, una netta sterzata a sinistra (che non ha portato fortuna ad Hamon il quale ha ottenuto un risultato più che modesto). Eppure, anche il programma di Hamon corteggiava il populismo e si basava sul rifiuto dell’austerità, sul reddito minimo universale, sull’abolizione della riforma del lavoro. Ma come sempre avviene quando sono chiamati a fare una scelta, gli elettori preferiscono sempre l’originale rispetto al surrogato. L’area politica a sinistra è stata ampiamente coperta da Jean-Luc Mélenchon, campione della gauche più radicale.
A questo punto è opportuna una riflessione, perché anche in Italia sono molti i lavoratori che hanno gonfiato le vele delle forze populiste, in particolare del M5S. Il problema sta – come si è soliti affermare – nel fatto che i governi non si sono occupati a sufficienza della “sofferenza” di settori di popolazione colpiti e destabilizzati dalla crisi? È troppo semplice flagellarsi in questo modo e andare alla ricerca di risposte nell’ambito delle antiche certezze della seconda metà del XX secolo. E non vale appellarsi alle gloriose conquiste del passato – a cui si starebbe rinunciando con un atteggiamento di resa – come se esistesse un pacchetto di diritti concessi e ottenuti una volta per sempre e per tutte.
A questo proposito, mi sia consentita una citazione di George Danton il quale diceva che gli esseri umani dispongono soltanto di quei diritti che sono capaci di difendere. A mio avviso nel mondo moderno, nelle economie sviluppate, la difesa delle prerogative acquisite non passa soltanto dalle norme o dagli ordinamenti, dal ritorno al nostro piccolo mondo antico, ma anche e soprattutto dalla capacità di assicurare un contesto di crescita e sviluppo che sappia conciliare le esigenze di competizione con l’intelaiatura di un qualificato standard di diritti. È una ricerca questa che si muove lungo un crinale angusto sospeso tra il declino e il progresso. La domanda inquietante che assilla noi europei e alla quale continuiamo a dare risposte più improntate all’ottimismo della volontà (e dell’ideologia) che al pessimismo dell’intelligenza è sempre la stessa. Il modello sociale europeo, di cui tanto siamo fieri, è una malattia cronica con la quale è necessario convivere contenendone il più possibile gli effetti invalidanti oppure è una risorsa, un punto di forza da far valere nella battaglia della globalizzazione? È possibile che abbiano un futuro dei paesi le cui strutture e politiche pubbliche drenano e impiegano la metà del prodotto? L’Europa non è in grado di cambiare radicalmente i propri standard di vita, ma non può neppure continuare a vivere al di sopra delle possibilità che le sono consentite come accade ora. È nostro compito trovare un equilibrio possibile mediante le riforme sociali e del lavoro con un occhio attento all’allocazione delle risorse.
E a Trump che vagheggia di richiamare in patria le imprese “fuggite” all’estero è bene ricordare (lo faccio spesso perché si tratta di un esempio molto chiaro) quanto scrive Enrico Moretti nel suo saggio “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori). L’iPhone è un prodotto ad altissimo livello di tecnologia, costituito da centinaia di componenti elettronici sofisticati, unici e delicati. Eppure – afferma Moretti – i lavoratori americani entrano in gioco solo nella fase iniziale dell’innovazione. Il resto del processo, compresa la fabbricazione dei componenti elettronici più complessi, è stato completamente delocalizzato all’estero. Seguiamo, allora, su di un immaginario mappamondo il tragitto produttivo di questo oggetto entrato ormai nella vita quotidiana di miliardi di persone. L’iPhone viene concepito e progettato da ingegneri della Apple a Cupertino in California (dove si è recato in visita, dopo la sonora sconfitta del 4 dicembre, l’ex premier Matteo Renzi).
Questa, come abbiamo già ricordato, è la sola fase “americana” nella fabbricazione del prodotto e consiste nel desing, nello sviluppo del software e dell’hardware, nella gestione commerciale e nelle altre operazioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio, il costo del lavoro è un problema secondario, perché è tanto il valore aggiunto che viene creato. Gli elementi-chiave sono la fantasia e l’inventiva degli ingegneri e dei designer. I componenti e i circuiti elettronici sono fabbricati oltreoceano a Singapore o a Taiwan. Arriva poi la fase dell’assemblaggio e della produzione vera e propria. È questa la tappa che richiede più alta intensità di manodopera, dove, pertanto, la componente costo del lavoro assume un particolare rilievo. La lavorazione dell’iPhone sbarca in Cina, in una fabbrica alla periferia di Shenzhen che è forse la più grande al mondo con i suoi 400mila dipendenti. Così a chi compra il prodotto on line, esso viene spedito da qui. L’iPhone è formato da 634 componenti, ma la maggior parte del valore aggiunto proviene dall’originalità dell’idea, dalla progettazione ingegneristica e dal desing. La Apple ha un utile di 321 dollari per ogni iPhone venduto, pari al 65% del totale e ben più di qualsiasi fornitore di componenti. Eppure , ricorda Enrico Moretti -, l’unico lavoratore americano che tocca il prodotto finale è l’addetto alle consegne dell’Ups.
Assistiamo cosi, nella globalizzazione, a un nuovo modello di divisione internazionale del lavoro. Non si tratta più, come alcuni decenni or sono, di scaricare sui paesi emergenti i settori maturi o inquinanti o di imporre loro, come durante il colonialismo, economie prigioniere della monocoltura, soggette alle oscillazioni dei prezzi e dei mercati. Oggi la divisione avviene anche nella fabbricazione di un singolo prodotto con l’apporto del livello di tecnologia e di capacità di innovazione di cui la filiera dei paesi produttori è, di volta in volta, protagonista. Che cosa vorrebbe fare The Trump? Riportare la fabbricazione dei componenti e dei circuiti elettronici e il loro assemblaggio negli Stati Uniti? E quale sarebbe il costo di un prodotto di grande successo proprio perché il suo prezzo è sostenibile?
Alcune sere or sono ho assistito ad un dibattito tra un vetero-sindacalista (l’ex Fiom Giorgio Cremaschi) e un giovane dirigente che è una speranza per il futuro del sindacato confederale (Marco Bentivogli, leader della Fim-Cisl). Al di là del dibattito sui princìpi, l’asino è cascato sui giudizi riguardanti alcune situazioni concrete. Il caso Alitalia, per primo. Secondo Cremaschi invece di accettare un accordo sugli esuberi e sulla riduzione delle retribuzioni, i sindacati avrebbero dovuto rivendicare la nazionalizzazione della compagnia. Quanto all’altra vertenza di cui si è discusso – Almaviva -, sempre secondo l’ex dirigente della Fiom, occorreva indurre il governo a minacciare la revoca alla società dei contratti con la Pubblica amministrazione e con le aziende collegate, se non avesse ritirato i licenziamenti. Dove porterebbe una logica siffatta? Non ha senso che un’azienda in crisi risolva i suoi problemi a carico dei contribuenti (questo sarebbe il risultato della nazionalizzazione) che, quando viaggiano, già pagano tre euro di costo supplementare del biglietto per dare copertura agli effetti della ristrutturazione e della salvaguardia del reddito degli esuberi di una decina di anni or sono. Una compagnia aerea che non è competitiva potrebbe sopravvivere soltanto in una condizione di monopolio: cosa che non solo non è più possibile, ma se anche lo fosse scaricherebbe i maggiori oneri sui consumatori (e sui contribuenti). Poi come si potrebbe proibire agli italiani di viaggiare con una compagnia straniera con tariffe più vantaggiose: chiudendole in faccia le piste di atterraggio negli aeroporti?
Lo stesso ragionamento vale per Almaviva. Supponiamo pure che avesse ceduto al ricatto (che per fortuna non c’è stato) del governo pur di mantenere le commesse pubbliche. Ma per quale motivo la Pa avrebbe dovuto pagare di più un servizio di call center, al solo scopo di conservare dei posti di lavoro ormai diventati “finti”? Poi, come l’avrebbero messa con le leggi che impongono di promuovere delle gare quando si devono commissionare dei servizi? Le alternative di Cremaschi potrebbero esistere solo in un Paese che chiude le frontiere e vive di quello che produce, senza scambi con altre economie. Ecco perché le terapie dei populisti non sono solo sbagliate, ma pure inesistenti e impraticabili.