Ciclica, come le tasse, l’influenza e le crisi di governo, è tornata di attualità anche la questione Alitalia. Il referendum con cui i dipendenti di quella che era la compagnia di bandiera e che oggi è, né più né meno, che una media azienda di trasporto aereo i cui azionisti sono tanto ricchi quanto poco disposti a tirar fuori altri soldi, ha spaccato l’Italia. Con risultati però tutt’affatto diversi rispetto a quelli della consultazione aziendale. Se, infatti, tra i dipendenti, il No alla proposta di accordo è passato con percentuali che una volta si sarebbero dette bulgare e che oggi si ritrovano solo nelle consultazioni interne al M5S, pare che tra gli italiani a vincere con larghissimo margine di scarto sia invece il No all’idea di nazionalizzazione.
Come dire che il referendum ha sancito, da un lato, per l’ennesima volta una spaccatura interna al mondo sindacale, e dall’altro ha provato quanto il buon senso di Cgil, Cisl e Uil sia in perfetta sintonia con il comune sentire di circa 50 milioni di italiani. Per paradossale che sia, infatti, da lunedì sera la domanda che tutti si fanno, neppure troppo riservatamente, non è se questo risultato segna la sconfitta del sindacato confederale, ma se il Governo davvero terrà fermi i suoi propositi e continuerà a dire di no alla nazionalizzazione di Alitalia, come pubblicamente affermato in più occasioni.
Ormai, infatti, sulla bilancia non ci sono più i (promessi) due miliardi di ricapitalizzazione di Etihad, ma due concezioni opposte: da un lato chi, come Governo e Confindustria, vorrebbe bloccare il punto e spinge verso il commissariamento (e conseguente liquidazione) di Alitalia, e dall’altra i nostalgici dell’Iri che fu, i quali ritengono che “una compagnia di bandiera aerea sia strategica per ogni nazione e quindi il Governo deve intervenire, immettere denaro fresco, acquistare le quote di maggioranza”. Azione che, aggiungiamo noi, ma di cui gli italiani si vanno vieppiù convincendo, ci farà divenire, nell’ordine, i fortunati proprietari di un debito annuo di almeno 350 milioni; di una flotta che non basta per far utili, ma che è largamente sufficiente per far ulteriori danni al bilancio pubblico; di due hub che si faranno concorrenza fino alla fine dei secoli.
I tifosi dell’Iri, hanno però una carta da giocare, una carta seria e sulla quale c’è poco da ironizzare, e cioè che bisogna salvare i 12mila lavoratori e le decine di migliaia dell’indotto. Vero, tant’è che i sindacati confederali si guardano bene dallo sfruttare politicamente, come pur potrebbero fare, questa che è la classica vittoria di Pirro dei sindacati autonomi e dei Cobas. La domanda che sta emergendo, infatti, è se i lavoratori si salvano promettendo loro, come qualcuno ha pur fatto, soldi che non ci sono; disegnando davanti ai loro occhi un panorama frutto più di uno scenario da fantasy che non di un realistico approccio contrattuale; in poche parole, vendendo loro quel che nessuno aveva in tasca. Oppure se i lavoratori si salvano a partire dalla verità, dalla realtà: sono passati quasi 30 anni dal referendum sulla scala mobile, ma qualcuno ancora non se ne è fatta una ragione e continua a pensare alla lotta di classe come strumento per risolvere i problemi del mondo (o almeno i suoi personali, se non si può per tutti).
Solo che il problema oggi è di sostituire le tute blu metalmeccaniche con i piloti dei Boeing e il personale viaggiante, le cui condizioni contrattuali sono oggettivamente diverse da chi trascorre le ore davanti a un altoforno o su una catena di montaggio. Così i Cub hanno finito per rappresentare non quegli italiani che volano pagando il biglietto e quelli che non vogliono invece pagare altre tasse per chiudere voragini fallimentari, ma quegli italiani che, pur volando anch’essi ma non tra i passeggeri, preferiscono statalizzare i debiti e privatizzare gli utili. Non tutti i dipendenti di Alitalia, certo, la pensano così: una buona percentuale ha votato no. C’è da chiedersi se tutti costoro sono straricchi o se magari, invece, hanno fatto i loro conti e hanno optato per mantenere un vero posto di lavoro sia pure con sacrifici e fatiche, piuttosto che scommettere su un contratto nazionalizzato di cui si fa fatica a intravedere anche solo i contorni.
Davvero i Cub e i loro sostenitori politici, in primis il M5S, credono che l’Europa accetterebbe un ritorno al passato per un’Italia che ha già dimostrato più volte di essere, al riguardo, ballerina e di dubbia affidabilità? Davvero pensano che Lufthansa, per fare il nome di chi sta aspettando che passi il cadavere di Alitalia per spogliarlo di quel che ancora indossa, non si muoverà, come già fece a Malpensa, per bloccare ogni tentativo di pubblico intervento? Davvero sono convinti che il Governo per salvare lavoro (e attuali condizioni contrattuali) di 12mila lavoratori, rischierà di perdere il consenso dei milioni di altri cittadini che invece la pensano come Cgil, Cisl e Uil?
Perché in queste ore sta emergendo un fatto incontrovertibile: i sindacati confederali hanno saputo rappresentare gli interessi di tutti i cittadini, di tutti i loro iscritti, sia di quelli che volano usando la cloche, sia di quelli che volano seduti a guardare fuori dal finestrino. E mai come in queste ore il sindacalista, dai vertici a quello medio, è bombardato di domande su questo tema, nonché di commenti che gli chiedono di non tornare indietro, che si rifiutano di farsi carico di debiti che non sentono come utili alla causa pubblica, che ammettono di non capire le posizioni massimaliste di chi vorrebbe tornare indietro.
Se c’è una cosa che gli italiani non sembrano accettare, quindi, non è la mediazione sindacale confederale, ma l’operazione nostalgia dei puri e duri tra i Cub. D’altra parte la democrazia è fatta di voti, di scelte: così qualcuno, anche tra i commentatori di importanti giornali, oggi va dicendo che il referendum è stato fatto perché i sindacati volevano scaricarsi di ogni responsabilità, hanno preferito non assumersi il peso di scegliere. Strano mondo, quello dei commentatori: perché chi oggi, proprio questa mattina, su Repubblica scrive così, ieri, e nemmeno troppo tempo fa, sosteneva invece che senza referendum i sindacati non erano rappresentativi degli italiani. Vabbè che la coerenza non è di questo mondo e che, come diceva Churchill, solo le mucche non cambiano mai idea, ma da qui a divenire tutti bovini…
Infatti, il centro della questione non è se ci vuole un referendum oppure no, ma se ogni volta questo referendum deve scegliere tra massimalisti e riformisti; se il riformismo in questo strano, bellissimo e benedetto Paese, deve sempre riguardare gli altri e mai se stessi. Ma soprattutto: perché ogni nazione ha (o meglio dovrebbe avere) bisogno di una sua compagnia di bandiera aerea? Perché la salvaguardia di 12mila posti di lavoro deve passare per forza attraverso le forche caudine del debito pubblico?
La questione Alitalia rischia, dunque, di divenire, il terreno di scontro tra due mondi, solo che in uno, fianco a fianco, stanno coloro che provano a guardare avanti, nell’altro coloro che hanno come orizzonte riformistico il 1977. E a prescindere dal risultato finale, una cosa è certa: anche questa volta la stragrande maggioranza degli italiani sta al fianco di Cgil, Cisl e Uil.