La produttività del lavoro è il tallone d’Achille del nostro sistema. Dalle recenti rilevazioni Istat emerge infatti come il 2016 abbia registrato un nuovo calo, pari al -1,2%. Se calcolato come valore aggiunto per ora lavorata, il calo aumenta di passo rispetto all’anno precedente (-0,2%); e, guardando agli ultimi 20 anni, dal 1995 al 2016, arco di tempo per cui sono disponibili le serie storiche, si osserva come il ritmo di crescita non supera lo 0,3% annuo. Una produttività, quindi, quasi piatta. 



Nell’ultimo ventennio, la produttività del lavoro è aumentata a un tasso medio annuo dello 0,3%, sintesi di una crescita media dello 0,5% del valore aggiunto e dello 0,2% delle ore lavorate (dati Istat). Tra il 1995 e il 2016, la crescita della produttività del lavoro in Italia è risultata decisamente inferiore alla media Ue (+1,6%) e all’area euro (+1,3%). Tassi di crescita in linea con la media europea sono stati registrati per Germania (+1,5%), Francia (+1,6%) e Regno Unito (+1,5%). Per la Spagna, il tasso di crescita è stato più basso (+0,6%) della media europea, ma più alto di quello dell’Italia.



Se persino la Spagna ha una produttività del lavoro che cresce più che da noi, ciò fotografa il vero vulnus del nostro sistema produttivo. Ciò non significa che la morsa dello Stato – fisco e burocrazia – non sia un problema, ma riporta l’impresa alla sua origine primaria di sistema organizzato produttore di valore e di bene. Quando si parla di altri paesi che hanno una produttività maggiore, ciò non è dovuto semplicemente al fatto che altrove lavorano di più, anche perché noi siamo quelli che abbiamo gli orari più alti in Europa. Il problema è cosa si produce nelle ore lavorate. Ovvero: qual è il valore aggiunto che viene messo nelle ore di lavoro? Questo è il tema della produttività, non solo come si lavora, ma come si investe, come ci si organizza e anche la quantità di investimenti che vengono fatti sulla ricerca e sull’innovazione.



Il nostro Paese resiste molto ai processi di trasformazione e di innovazione, è un fattore culturale. Questa è la ragione per cui la Spagna – molto simile a noi nella sua morfologia economica e sociale – è più avanti del nostro Paese. Le recenti misure sulla detassazione dei premi di risultato hanno quantomeno il merito di creare condizioni – la partecipazione al lavoro in particolare – nei luoghi di lavoro indispensabili alla crescita. Ma non basteranno, per due ragioni: in primis, bisogna che il carico fiscale sulle imprese si alleggerisca strutturalmente; ciò creerebbe un cuscinetto di liquidità per gli investimenti, indispensabili per portare innovazione nelle fabbriche. In secondo luogo, il soggetto della crescita è l’impresa, considerata proprio come sistema organizzato; non saranno le agevolazioni fiscali a rendere più produttive le imprese, queste devono essere consapevoli della trasformazione e di nuovi modelli di business, cosa su cui molte di esse sono ancora in ritardo.

Tuttavia, il valore aggiunto che ci ha sempre contraddistinto in giro per il mondo non può essersi smarrito: restiamo pur sempre il secondo Paese manifatturiero d’Europa e il made in Italy resiste come terzo marchio al mondo. Ma la verità è che deve tornare a volare.

Twitter: @sabella_thinkin