Pensioni e Lavoro. Il Movimento 5 Stelle, avvicinandosi la scadenza elettorale, e sentendosi possibile forza di governo, inizia a lanciare idee programmatiche. Settimana scorsa ha per la prima volta presentato alcune idee su uno dei temi più caldi, il lavoro. È solo la presentazione delle prime proposte uscite dalla consultazione aperta fra i propri militanti. Il sito, con molta enfasi, introduce al tema lavoro opponendo la propria capacità di “osservare, leggere e orientare il futuro” rispetto agli altri partiti che saprebbero solo “guardarsi l’ombelico”. L’obiettivo dichiarato è quello di superare una fase caratterizzata da interventi di sola regolazione contrattuale, mentre per “creare lavoro nelle economie mature serve una rivoluzione copernicana che rovesci il paradigma produttivo” attraverso forti investimenti nei settori realmente (?) produttivi e un nuovo approccio culturale ai consumi.



Ben 210 mila espressioni di preferenze hanno già selezionato un primo panel di proposte. Il risultato viene presentato come un record mondiale. Anche volendo considerare 210 mila individui varrebbe la pena di ricordare che anche nel nostro bistrattato Paese si operò il taglio della scala mobile con qualche decina di milioni di votanti in un referendum. E ciò senza scomodare la partecipazione attiva dei militanti sindacali in occasione di molti contratti di categoria. Ma il tema sindacale non piace ai militanti cinque stelle. Tanto che la terza proposta per “un lavoro di qualità” è un elenco di privilegi sindacali che devono essere aboliti per dare più libertà di scelta ai lavoratori.



Vi sono molti esempi di burocratizzazione sindacale che possono essere indicati come ormai superati o che sono veri e propri limiti all’azione di rappresentanza. Ma indicare i Caf e gli enti bilaterali come i nemici della “vera libertà” di partecipazione dei lavoratori alle scelte dei gruppi dirigenti appare quantomeno stravagante.

Sono questi gli strumenti di una nuova possibile presenza, anche gestionale, dei rappresentanti dei lavoratori nelle politiche attive del lavoro e per le politiche fiscali. Sono queste iniziative che dovrebbero vedere una maggiore responsabilizzazione delle rappresentanze e da qui trarre spunto per nuove forme di partecipazione alle scelte economiche e aziendali. Ma per le preferenze pentastellate conta indicare “punizioni” per i sindacati, mentre nulla è detto sulla necessità di procedere a nuovi metodi e modelli di contrattazione.



Venendo però alle questioni più legate al tema reale del lavoro (non so se di qualità, ma è il lavoro quotidiano della gente che lavora), ritroviamo un vecchio slogan sindacale: lavorare meno, lavorare tutti. Ovviamente la modernità di questa vecchia proposta è introdotta dalla constatazione che gli impatti dell’informatizzazione dei processi produttivi e l’imminente robottizzazione ridurranno il lavoro umano. Assumendo che lo stock di ore lavorate per la produzione di beni e servizi è un dato fisso, ne deriva che solo una diminuzione dell’orario di lavoro e una sua redistribuzione può rispondere alla sfida delle trasformazioni produttive in corso.

I militanti non sembrano già formati sulle tesi dei nuovi apologeti dell’ozio o del rifiuto del lavoro. Esprimono solo l’ennesima paura di fronte ai cambiamenti che l’innovazione porta nella sfera economica. Selezionare da qui la proposta per nuove scelte nelle politiche per il lavoro appare contraddittorio con esempi ben verificabili. L’effetto della legislazione per le 35 ore introdotta in Francia non ha prodotto più lavoro, ma più straordinari. Solo un successivo recupero di produttività ha salvaguardato l’occupazione esistente e ha frenato l’effetto di creare più disoccupati.

Ovviamente la proposta pentastellata non si ferma all’orario di lavoro, ma pone l’obiettivo di cambiare il rapporto fra tempi di vita e tempo di lavoro. Sono possibili molte soluzioni per affrontare questo tema in una fase in cui non vi è più un lavoro a vita, ma una vita fatta di diversi lavori. Un nuovo welfare e una forte formazione continua sono sfide aperte. Non per le 210 mila preferenze che si concentrano invece sulla necessità di tornare al sistema pensionistico pre-Fornero e permettere di anticipare il pensionamento ovviamente per lasciare lavoro ai giovani.

La proposta pone due problemi di fondo. L’equilibrio economico del costo di una tale scelta ricadrebbe sulla fiscalità generale con un aumento della tassazione generalizzata. Ma vale la pena soffermarsi sul dato di fondo. L’Italia ha bisogno di studiare di più e lavorare di più. Serve una formazione maggiore per aumentare la qualità del capitale umano impegnato nel lavoro e anche un aumento di quanti lavorano. Il tasso di occupazione del nostro Paese resta il più basso fra i paesi industrializzati. Sia per gli uomini che per le donne è lontano l’obiettivo di avere tassi di occupazione del 70% e 60% per quanti sono in età lavorativa.

I paesi europei con meno disoccupazione hanno tassi di occupazione molto più alti dei nostri. Lavorano di più i giovani, grazie anche a sistemi formativi sviluppati assieme alle imprese e con ampio utilizzo dell’apprendistato. Lavorano di più le donne grazie alla diffusione dei servizi per l’infanzia, ma anche perché non è penalizzato il ricorso al part-time. Lavorano di più anche gli anziani con contratti modulati sulla disponibilità a ridurre progressivamente il proprio impegno lavorativo. Tornare quindi all’illusione che ridurre il tempo di lavoro settimanale o di vita sia la soluzione è confondere il desiderio di chi lavora con la risposta al bisogno di chi il lavoro lo cerca.

Prendiamo pure sul serio le proposte che escono dalla piattaforma dei cinquestelle, ma finora appaiono la registrazione dei timori diffusi fra la gente. Non certamente proposte in grado di risolvere i problemi che generano queste paure.