Per quanto riguarda il lavoro, abbiamo avuto l’ennesimo anno difficile, ma ci sono stati segnali di miglioramento: il Pil ha avuto una leggera ripresa, la cassa integrazione è da circa due anni in riduzione, l’occupazione è stata ancora in crescita, anche se tale crescita è da ascrivere meno al lavoro stabile che al lavoro a termine. Del resto gli effetti degli incentivi del Jobs Act sembrano essersi attenuati con una ripresa economica che non è ancora robusta.



Come nelle feste contadine tradizionali volte a propiziare l’ordinata scansione dei cicli stagionali, da cui dipendevano i buoni o i cattivi raccolti, per il sindacato la festa del 1 maggio deve essere un’occasione per fare un bilancio di cosa abbiamo messo nei canestri nell’anno trascorso, ma anche per proiettarci verso la stagione successiva e lavorare per un nuovo raccolto.



Per il sindacato confederale la seconda metà del 2016 ha segnato la ripresa di un confronto con il Governo sui temi del lavoro che ha portato all’accordo sulla revisione di alcune rigidità della riforma Fornero sulle pensioni, a un potenziamento della normativa a favore della contrattazione di secondo livello, alla correzione di alcune parti troppo rigide della riforma degli ammortizzatori sociali. Il bilancio è incoraggiante anche per quanto riguarda i rapporti con le associazioni datoriali: abbiamo infatti raggiunto importanti accordi sul nuovo modello di relazioni industriali volti a promuovere la contrattazione aziendale.



Ma l’Italia non ha ancora superato il momento difficile: le previsioni per la crescita del Pil contenute nel Def sono ancora insoddisfacenti, molte aziende sono in seria difficoltà, l’occupazione dovrà crescere ancora molto per recuperare i livelli pre-crisi, la disoccupazione giovanile resta troppo elevata. In particolare su quest’ultimo punto è richiesto un impegno senza precedenti: l’attuale congiuntura economica si è innestata su una serie di problemi di natura strutturale, portando al limite le preesistenti difficoltà per i giovani. Già alla fine del 2008, il tasso di disoccupazione giovanile era il triplo di quello complessivo, i giovani rappresentavano la categoria più coinvolta nei rapporti di lavoro flessibili, mostravano un ampio divario tra qualifiche possedute e mansioni svolte o qualifiche richieste dal mercato. Le riforme pensionistiche che già avevano iniziato a spostare in là l’età pensionabile e il forte rallentamento delle assunzioni nel pubblico impiego hanno creato negli anni un vero e proprio blocco del turnover. Le giovani generazioni stanno insomma pagando un tributo insostenibile.

La Cisl chiede che i giovani vengano rimessi al centro dell’agenda politica con una serie di misure mirate: una “staffetta generazionale” che con la fase due della riforma delle pensioni permetta ai giovani di subentrare a chi lascia il lavoro con un pensionamento flessibile, un impegno di ogni impresa per quote di giovani in alternanza scuola-lavoro o in apprendistato duale, uno stop ai tirocini non qualificati e in sostituzione di lavoro, un investimento in borse di studio a carico dello Stato per corsi di laurea in area scientifico-tecnologica condizionate a soglie Isee.

Va ricordato che resta ancora in mezzo al guado l’ultima e forse più importante parte del Jobs Act, vale a dire la riforma delle politiche attive: in un momento in cui il nostro Paese fatica a uscire definitivamente dalla crisi, manca ancora un sistema di misure proattive di passaggio da lavoro a lavoro che avrebbe dovuto anche accompagnare e rendere più sostenibile la razionalizzazione della cassa integrazione, contenuta nello stesso Jobs Act. La vittoria del “No” al referendum, del resto, ha allontanato per un tempo indefinito un migliore equilibrio delle competenze tra Stato e Regioni. Il Governo deve comunque fare ogni sforzo per accelerare il decollo vero di quanto previsto dalla riforma, perché il passaggio dalla tutela del posto alla tutela nel mercato ha proprio qui uno dei suoi snodi più importanti.

Come Cisl crediamo infine che sia il momento di rompere ogni indugio e affrontare le due sfide maggiori relative al lavoro in questo momento: la sfida della rivoluzione verde e la sfida dei cambiamenti tecnologici. È sempre più acquisito, a livello di comunità scientifica, ma anche di opinione pubblica, il principio che lo sviluppo sostenibile sia l’unica scelta possibile per un modello di sviluppo globale competitivo non distruttivo. Una scelta da coniugare dal livello generale al livello di comunità, al livello di impresa. Questo non è affatto semplice, ma sono in via di superamento le sterili contrapposizioni tra esigenze della produzione ed esigenze ambientali. Oggi sono sempre più coloro che sono convinti che la cosiddetta rivoluzione verde possa rappresentare una straordinaria opportunità per cambiare i modelli di produzione senza perdere posti di lavoro ma, anzi, creandone di nuovi.

Contemporaneamente siamo di nuovo, come già è capitato più volte nella storia recente dell’umanità, di fronte a significativi cambiamenti nel lavoro, stiamo infatti vivendo la quarta rivoluzione industriale. Il lavoro e le persone si trovano di fronte alla sfida dell’innovazione. Si creano nuovi prodotti, nuovi servizi, con una sempre più accelerata sostituzione di funzioni svolte dagli uomini con attività svolte dalle macchine, e con un netto mutamento delle competenze richieste e delle funzioni del lavoro. Così come si creano inedite forme di interazione tra le macchine e i lavoratori, nonché di organizzazione del lavoro che, se inizialmente richiedono uno sforzo di adattamento, finiscono, se ben governate, per valorizzare maggiormente le persone. Basti pensare al lavoro non più legato alla singola macchina o postazione, che diventa quindi lavoro in rete e in team, e al peso maggiore che assumono le attività complesse di tipo cooperativo che le macchine non riescono a fare, con l’intelligenza collettiva che progressivamente subentra alle abilità individuali.

Le sfide possono quindi sempre essere tramutate in opportunità, ma a una condizione che non dobbiamo più sottovalutare. Il lavoro deve tornare anche in questo 1 maggio a essere generatore di sicurezza sociale, fattore che la crisi ha incrinato e che dobbiamo recuperare. Se i posti di lavoro aumentano, ma l’insicurezza tiene sotto scacco le comunità di lavoratori, mettiamo a rischio coesione sociale e ogni possibile azione di riforme. Anche questa Festa del lavoro quindi è un momento utile se positivamente sa riportare in alto il lavoro come bene comune e benessere dell’intera società: rimettiamo al centro la persona e il lavoro.

Leggi anche

SINDACATI vs IMPRESE/ Se Cgil, Cisl e Uil non si sono (ancora) accorti della crisiSINDACATI E POLITICA/ Così il Recovery può aiutare l'occupazione in ItaliaAMAZON USA, NO AL SINDACATO/ La sfida della rappresentanza nel capitalismo Big Tech