“In Italia la spesa pensionistica in percentuale del Pil ha registrato un significativo incremento dovuto alla crisi e al relativo calo del Pil nominale ed è attualmente la seconda più elevata nell’Ue/Ocse dopo la Grecia. È positivo tuttavia che le passività implicite derivanti dall’invecchiamento della popolazione siano state ridotte, in parte grazie alla riforma Fornero del 2012 (in verità la legge è del 2011, ndr), per cui l’Italia ha una posizione relativamente buona in termini di rischi per la sostenibilità a lungo termine nonostante il livello attualmente elevato della spesa per le pensioni (….) Tuttavia, va osservato che il bilancio 2017 contiene misure parzialmente in controtendenza rispetto alla riforma Fornero del 2012 (si fa riferimento all’entrata in vigore?, ndr), in grado di aumentare leggermente la spesa pensionistica nel medio periodo”. Così è scritto nel documento di valutazione dei conti pubblici del nostro Paese (lo stesso in cui era richiesta la “manovrina” di aggiustamento) da parte della Commissione europea.
A Bruxelles si sono accorti che le misure contenute nella Legge di bilancio (e che sono attualmente in fase di attuazione) viaggiano “in controtendenza” rispetto alla riforma Fornero. Ed è così. Il Governo ha cercato di non debordare anche attraverso provvedimenti come l’Ape nelle sue diverse versioni (che hanno aggirato il buco nero della flessibilità in uscita). Vi sono però interventi di carattere strutturale (in particolare quelli riferiti ai cosiddetti precoci e all’incremento e all’estensione della “quattordicesima”) che per ora stanno su di una linea di confine ben poco custodita, attraverso la quale possono passare veri e propri ritorni a “come eravamo”. Ma la riforma Fornero – ormai siamo nel sesto anno dalla sua entrata in vigore – viene applicata oppure segna ancora il passo sul posto (come comandava l’insegnate di ginnastica), incaprettata dalle deroghe e dalle salvaguardie?
Sarebbe veramente paradossale che alla riforma pensioni del 2011 si attribuisca ogni tipo di responsabilità, mentre i cambiamenti prodotti fossero abbastanza limitati. Secondo le chiacchierate da Bar Sport che si svolgono nei talk show televisivi, ai nostri concittadini sarebbe stato precluso il diritto di andare in pensione se non all’età di Matusalemme. Chi dovesse sostenere il contrario sarebbe considerato un visionario. Ovviamente nessuno si sforza di consultare le statistiche ufficiali di cui il Coordinamento statistico attuariale dell’Inps è prodigo. Perché andare alla ricerca della verità quando è tanto più gratificante inventarla? Nel Monitoraggio dei flussi del pensionamento (come al solito limitato ai settori privati “tradizionali” dell’Istituto: dipendenti, autonomi, parasubordinati, assegni sociali) a cura del Coordinamento con rilevazione al 2 aprile scorso, sono elencati i numeri dei pensionamenti nelle loro diverse tipologie, con decorrenza nel 2016 e nei primi tre mesi del 2017. Nel complesso delle gestioni considerate, lo scorso anno, sono stati liquidati più di 120mila nuovi trattamenti di vecchiaia (importo medio mensile di 646 euro) e di 118mila anticipati/di anzianità (importo medio mensile di 1.916 euro). Nel 2017 (gennaio-marzo) i trattamenti sono stati rispettivamente 34,5mila (711 euro mensili) e 31,5mila (poco più di 2mila mensili).
Se consideriamo soltanto il Fondo pensioni lavoratori dipendenti (incluse le contabilità separate/ ex fondi speciali e gli ex enti creditizi, dal momento che sempre di lavoro dipendente si tratta, ma anche al netto di tali contabilità la sostanza dei problemi non cambia), ci accorgiamo che nelle pensioni decorrenti nel 2016 quelle anticipate (77mila) sono state il doppio di quelle di vecchiaia (38mila). Ma la sorpresa è quella dell’età effettiva media alla decorrenza della pensione: 65,5 anni per la vecchiaia a fronte di 60,5 anni per l’anzianità/anticipate.
Circa la metà di questi ultimi trattamenti (35mila) è stata erogata a persone in età compresa tra 55 e 59 anni. Analogo trend nei primi tre mesi dell’anno in corso: 22mila pensioni anticipate, per un importo mensile medio di 2.270 euro (età media alla decorrenza 60,9 anni, 9mila prestazioni a persone in età compresa tra 55 e 59 anni) contro 11mila di vecchiaia (65,9 anni) per un importo mensile medio rispettivamente di 1.179 euro. Per inciso, è appena il caso di far osservare che non si tratta di prestazioni da “morti di fame”. Certo, le statistiche richiamano sempre la “media del pollo”. Ma è nostra convinzione che l’utilizzo del dati medi sia più corrispondente alla realtà di ciò che ci viene rappresentato in tv, quando intervistano un pensionato al minimo lasciando intendere che tutti i 16,3 milioni di concittadini in quiescenza versano più o meno nelle medesime condizioni (eccezion fatta per i “vampiri” che percepiscono pensioni d’oro).