Disposizioni in materia di abolizione dei vitalizi e nuova disciplina dei trattamenti pensionistici dei membri del Parlamento e dei consiglieri regionali”. È questa l’intestazione dell’AC 3225 di cui è primo firmatario Matteo Richetti del Pd. Il provvedimento è annunciato per l’Aula a Montecitorio tra pochi giorni. È assolutamente prevedibile che sarà approvato, visto che nessuna forza politica si sottrarrà al fascino discreto della demagogia. Poi al Senato la proposta di legge incontrerà qualche problema in più, sempre ammesso che la legislatura non arrivi a termine prima. Ma il tema sarà di quelli sfiziosi da qui a tutta la campagna elettorale. I talk show suoneranno la grancassa per tirare la volata al buon Richetti, santificato come il “virtuoso” che ha osato mettere in discussione i privilegi della Casta.
Chi scrive, nella vicenda, non ha alcun interesse particolare: sono titolare di una prestazione in parte erogata sulla base delle regole del vitalizio e in parte secondo quelle del calcolo contributivo e avendo “rappresentato la nazione” soltanto per una legislatura, se la proposta Richetti diventerà legge dello Stato, avrò ben poco da temere. Ma trovo screanzato (ovvero privo di buona creanza) darsi tanto da fare per cambiare il tenore di vita di qualche anziano ex parlamentare o della sua vedova. Il “nuovo corso” di Matteo Richetti, infatti, avrà effetto retroattivo e imporrà il ricalcolo secondo il metodo contributivo anche dei vitalizi vigenti (magari da decenni) sia degli ex parlamentari che dei consiglieri regionali.
Ma vediamo in sintesi gli aspetti più significativi, per come sono illustrati nella relazione: “La determinazione del trattamento previdenziale (…) è effettuata con lo stesso sistema, di tipo contributivo, vigente per i lavoratori dipendenti, ossia moltiplicando il montante individuale dei contributi per i coefficienti di trasformazione fissati dalla legge n. 247 del 2007 (in realtà vi è stato un successivo aggiornamento, ndr). Anche il montante contributivo individuale è determinato alla stregua dei lavoratori dipendenti, applicando alla base imponibile contributiva l’aliquota vigente per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali (…). Tale aliquota è stata determinata la prima volta dalla legge Dini e attualmente, a seguito di diversi interventi integrativi, per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali è pari al 33 per cento, di cui l’8,8 per cento a carico del lavoratore e per la restante parte a carico del datore di lavoro”.
Chi sono i datori di lavoro? La Camera e il Senato, ovviamente. Qui però sorge un piccolo problema tecnico, che non si risolve gettando il cuore oltre l’ostacolo in nome della lotta ai privilegi. I lavoratori italiani hanno scoperto l’esistenza del calcolo contributivo a partire dal 1° gennaio 1996. L’applicazione integrale di tale metodo riguardava gli assicurati da quella data in avanti. Coloro che avevano un’anzianità di servizio pari o superiore a 18 anni rimanevano nel sistema retributivo, mentre per chi aveva una storia contributiva inferiore a 18 anni veniva introdotto il calcolo misto pro rata. La riforma Fornero ha esteso a tutti il metodo contributivo per il periodo di attività dal 1° gennaio 2012. Bene. Se questo è quanto viene previsto per i lavoratori italiani, da quale data partirebbe il ricalcolo dei vitalizi vigenti? Dal 1° gennaio 1996 oppure dal primo giorno in cui il malcapitato si è seduto sui banchi del Parlamento?
In verità non si comprenderebbe il motivo per cui gli ex parlamentari dovrebbero essere trattati peggio di quei lavoratori a cui saranno equiparati. Delle due l’una: se si parte dal 1996 che si fa dei vitalizi erogati in precedenza? Se invece si vuole risalire ex tunc perché usare, per gli accrediti, l’aliquota del 33% e non quelle, di gran lunga inferiori, di volta in volta in vigore, negli anni in cui gli ex di oggi erano parlamentari di ieri?
C’è poi la trovata della costituzione di un’apposita Gestione presso l’Inps. Si sono resi conto (a leggere la relazione d’accompagno sembrerebbe di sì) che a questa Gestione i bilanci delle Camere dovrebbero trasferire le risorse necessarie al pagamento degli ex vitalizi divenuti trattamenti pensionistici ricostruendo con stanziamenti effettivi le nuove posizioni individuali? È un po’ la stessa vicenda che si dovette affrontare quando, nel 1995, nell’ambito della riforma Dini, venne istituita le Gestione dei trattamenti pensionistici ai dipendenti statali. In precedenza, le amministrazioni non versavano la quota contributiva spettante al datore, riscuotevano quella a carico del dipendente, poi, al momento della quiescenza, pagavano la pensione nello stesso modo in cui fino al giorno prima avevano pagato lo stipendio. Quando sorse la gestione previdenziale lo Stato si impegnò a versare ogni anno 14mila miliardi di lire come trasferimenti per fare fronte all’erogazione dei trattamenti in essere, dal momento che la neo-gestione non aveva in cassa una lira. In seguito questo stanziamento, convertito in euro, è stato trasformato in un’anticipazione divenendo un debito anziché un credito dell’Inpdap nei confronti dello Stato. È questa una delle ragioni del passivo che l’ex Inpdap ha portato in dote al super-Inps.
La previdenza è una materia delicata. Dio ci salvi dagli apprendisti stregoni, la cui madre è sempre incinta.