Il Jobs Act, in particolare la legge delega, tratteggiava un nuovo sistema di promozione e tutela del lavoro che avrebbe dovuto incidere sul versante delle politiche attive e passive, sul versante della disciplina dei rapporti di lavoro e sul versante della conciliazione delle esigenze di vita e di lavoro. Quel disegno dei #millegiorni sembra, tuttavia, essere andato già in crisi. Aboliti, ma rinasceranno a breve, i voucher e constatato, numeri Inps alla mano, che forse il problema del nostro mercato del lavoro non era l’articolo 18, i rumors ci dicono che potrebbe tornare in servizio la mobilità e la cassa integrazione in deroga. Ma cosa prevedeva la riforma renziana in materia?
Si stabiliva, prima di tutto, l’impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione definitiva di attività aziendale o di un ramo di essa. Si prometteva, poi, la semplificazione delle procedure burocratiche attraverso l’incentivazione di strumenti telematici e digitali, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati a livello nazionale di concessione dei trattamenti prevedendo, finalmente, strumenti certi ed esigibili. Si evidenziava la necessità di regolare l’accesso alla cassa integrazione guadagni solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro, eventualmente destinando una parte delle risorse attribuite alla cassa integrazione a favore dei contratti di solidarietà.
Ma, soprattutto, si interveniva ridefinendo i limiti di durata da rapportare al numero massimo di ore ordinarie lavorabili nel periodo di intervento della cassa integrazione guadagni ordinaria e della cassa integrazione guadagni straordinaria con l’individuazione anche di meccanismi di incentivazione della rotazione dei lavoratori. Con particolare riferimento alla revisione della durata massima complessiva delle integrazioni salariali, il Jobs Act stabiliva, infatti, che per ciascuna unità produttiva, il trattamento ordinario e quello straordinario di integrazione salariale non potesse superare la durata massima complessiva di 24 mesi in un quinquennio mobile.
Voci ben informate dal giornale di via Solferino sostengono che anche su questo il Governo stia facendo un passo indietro. Una scelta in materia di politiche di passive del lavoro che va, di pari passo, con l’amara constatazione che, probabilmente, le politiche attive e il famoso assegno di ricollocazione non stanno lavorando così bene.
Ci sono stati, certamente, problemi organizzativi. Tuttavia, è bene ricordare, che le politiche attive sono poco efficaci senza una ripresa economica che, ancora, stenta a vedersi nel nostro Paese. Si sceglie, quindi, il male minore anche se questo significa ammettere, ma senza dirlo su Twitter, che, probabilmente, aveva ragione chi dubitava della qualità, e dell’efficacia, delle riforme dei famosi #millegiorni.