Il lavoratore che riceve una contestazione disciplinare ha l’obbligo, nel presentare le proprie giustificazioni, di dire la verità? E se un tale obbligo non sussiste, deve almeno astenersi dal difendersi formulando accuse infondate nei confronti di altre persone, e in particolare nei confronti dei suoi superiori? Farà certamente discutere la sentenza n. 13383/2017, depositata dalla Corte di cassazione il 26 maggio 2017, che a entrambi i quesiti ha fornito risposta negativa.
La fattispecie sottoposta all’esame della Corte può essere, schematicamente, così riassunta. Il lavoratore riceve una contestazione disciplinare e, per discolparsi, formula, nei confronti di un suo superiore, gravi accuse, che però si rivelano infondate. Accertata tale infondatezza, l’azienda promuove un secondo procedimento disciplinare – e cioè quello oggetto della causa decisa con la sentenza in commento – nel quale, appunto, essa addebita al dipendente di aver formulato tale infondate, e quindi ingiuste accuse; il procedimento si conclude con il licenziamento. La Cassazione, però, conferma la sentenza della Corte d’appello di Napoli, che ha reintegrato il lavoratore, ai sensi dell’art. 18, comma 4, Stat. lav.: e cioè facendo applicazione della norma che punisce severamente tutti i casi nei quali il fatto addebitato al lavoratore non sussiste, ovvero, ancorché materialmente sussistente, è comunque irrilevante sotto il profilo disciplinare.
Proprio qui sta il core della pronuncia, della quale i datori di lavoro prima – e gli avvocati poi – dovranno tenere debito conto. In tal modo, infatti, la Suprema Corte ritiene sussistere un principio di diritto, in forza del quale il lavoratore soggetto a procedimento disciplinare non solo non ha l’obbligo di dire la verità, ma può anche difendersi accusando ingiustamente altre persone: e tale comportamento – sempre secondo la sentenza in commento – sarebbe a priori incensurabile sotto il profilo disciplinare. La prima affermazione, in effetti, appare condivisibile: applicare al dipendente l’obbligo di dire la verità, infatti, significherebbe, in ultima istanza, impedirgli persino di negare l’addebito, e quindi obbligarlo, tutte le volte in cui detto addebito è fondato, o a confessare, ovvero a non svolgere alcuna attività difensiva. Con la sentenza n. 13383/2017, però, la cassazione dice molto di più.
Essa afferma, infatti, che il diritto alla difesa «coperto da intangibile garanzia, grazie all’art. 24 Cost., anche in sede di procedimento disciplinare … non è affatto condizionato ai requisiti di verità, continenza e pertinenza, requisiti che invece attengono al ben diverso diritto (quello di cronaca) e servono a scriminare eventuali profili di diffamazione». Né, sempre secondo la Corte, sono applicabili alla fattispecie i principi in materia di diritto di critica, che, peraltro, «può incontrare solo i limiti della pertinenza e della continenza». Ciò porta la Corte a escludere che, in sede di procedimento disciplinare, al lavoratore possa essere addebitata la commissione «del delitto di diffamazione o di altro reato», giacché questo «resterebbe pur sempre discriminato nell’esercizio di un diritto (v. art. 51 cod. pen.)», e cioè del diritto di difesa del quale si è detto, e dunque da una «esimente che ha validità generale nell’ordinamento, non limitata al mero ambito penalistico».
Tale ricostruzione del diritto di difesa, secondo la Corte, è obbligata, poiché «nella contraria ipotesi, non si vede come sarebbe possibile [per il lavoratore] difendersi in sede disciplinare negando gli addebiti, perché ciò di per sé potrebbe essere sempre letto come implicita accusa di abusi da parte del datore di lavoro e, per ciò solo, fungere da fonte di ulteriore responsabilità disciplinare e/o penale», e dunque, in tale prospettiva, «il diritto di difesa (di cui agli artt. 7 legge n. 300 del 1970 e 24 Cost.) da garanzia per l’incolpato si trasformerebbe sempre, di fatto, in ulteriore occasione di responsabilità anche se esercitato in modo civile, pertinente e continente».
«Diversamente opinando – prosegue la Corte – per simmetria dovrebbe ritenersi del pari non scriminato dall’esercizio di altro diritto (quello relativo al potere disciplinare, riconosciuto al datore di lavoro dall’art. 2106 cod. civ.) già il solo fatto di attribuire al dipendente condotte dolose astrattamente suscettibili di integrare gli estremi d’un reato (oltre che d’una infrazione disciplinare). Ma – a tutta evidenza – in tal modo si darebbe luogo a scenari giuridicamente contraddittori e insensati».
Le affermazioni della Corte non convincono. L’insussistenza dell’obbligo di dire la verità, invero, non sembra possa automaticamente portare con sé la libertà di diffamare altre persone. La questione è complessa, e merita senz’altro di essere approfondita in una sede ben diversa dal presente intervento, la cui funzione è eminentemente informativa. Due osservazioni, tuttavia, possono essere già svolte “a caldo”.
Innanzitutto, non sembra condivisibile il parallelismo che la corte individua tra la formulazione dell’addebito da parte del datore di lavoro e la difesa del lavoratore. In primo luogo, infatti, la contestazione che dà inizio al procedimento disciplinare ha la funzione di sottoporre al lavoratore l’ipotesi della commissione di un fatto che al datore risulta (probabilmente) esistente e imputabile al dipendente: quella contestazione, dunque, è sì oggetto di un “diritto”, ma non del datore di lavoro, bensì del dipendente. In ogni caso, quando il diritto potestativo di irrogare la sanzione viene esercitato, il datore di lavoro non gode certo di particolari esimenti. Cosicché se, ad esempio, egli addebita un fatto insussistente, ma con coscienza e volontà pone in essere un’ingiuria, per questo può senz’altro essere punito: sino a tempi recenti egli commetteva un reato; oggi, dopo la depenalizzazione, l’ingiuria rimane comunque un illecito, che espone il datore di lavoro che la ponga in essere all’applicazione di sanzioni civili (oltre che alla richiesta di risarcimento del danno da parte del lavoratore ingiuriato). Ma soprattutto, per come formulata la motivazione della sentenza, sembrerebbe che la scriminante dell’esercizio del diritto di difesa possa valere in ogni caso, e quindi legittimare, senza limiti, anche la formulazione di accuse gravi e infondate a carico di terzi.
In realtà, l’esercizio del diritto, previsto appunto come scriminante dall’art. 51 cod. pen., richiamato dalla sentenza, neppure nel diritto penale opera senza limiti: esso, infatti, soggiace sia a limiti “interni”, rappresentati soprattutto dal divieto di abuso del diritto, sia a limiti “esterni”, che impongono sempre di porre a confronto e bilanciare il diritto esercitato con i beni giuridici che da quell’esercizio possono essere pregiudicati. Detto in parole povere, non sembra possibile affermare che il lavoratore possa, sempre e comunque, impunemente difendersi, formulando qualsivoglia accusa, anche grave, nei confronti di un terzo estraneo al procedimento disciplinare.
La questione, dunque, sembra porsi in termini più complessi di quanto indicato dalla sentenza n. 13383/2017, ed è quindi auspicabile che, magari a breve, la Suprema Corte torni sulla questione.