La Silicon Valley è un osservatorio decisamente privilegiato sull’alba ormai avanzata dell’era digitale e, in modo particolare, sulla capacità di invadenza “totalitaria” delle nuove tecnologie nei confronti della nostra stessa persona. Forse per la prima volta nella storia non nascono semplicemente nuovi lavori; non si inaugurano soltanto nuovi processi lavorativi, con la crisi, per certi aspetti fisiologica, che comporta il passaggio tra vecchie e nuove professioni. Si introduce una sorta di mutazione genetica dell’antropologia umana.



Partiamo dal lavoro: i robot di Amazon arriveranno in Italia entro quest’anno, in occasione dell’apertura di una nuova sede distributiva della società vicino a Rieti. Naturalmente, l’apertura del nuovo centro creerà nuovi posti di lavoro: in questa fase iniziale, i robot e gli esseri umani collaboreranno, perché la macchina semplicemente porterà il prodotto alla persona che poi provvederà alla spedizione, eseguendo l’ordine del cliente. Tuttavia, l’organizzazione rigorosa e ordinata del materiale commerciale in modo da reperirlo con facilità, che ha alimentato lavoro e professionalità per anni nell’ambito della logistica, non è più così indispensabile, perché il disordine è efficiente: un libro può tranquillamente trovarsi su uno scaffale, vicino a un boccale di birra posato lì per caso e il robot sarà in grado di intercettarlo e di trasportarlo all’addetto spedizioni grazie al software che lo muove. 



I nuovi lavoratori, o se si preferisce i futuri neoassunti, dovranno essere gente molto creativa e non potranno limitarsi a funzioni operative. Decisive in questo contesto saranno scuola e formazione (non saprei dire francamente come dovranno reinventarsi). Senza questo passaggio, i nuovi posti di lavoro creati oggi rischiano di creare nuovi disoccupati domani. Secondo Forrester Research -società americana di consulenza di impresa – “il futuro dell’occupazione non sarà cupo […]. L’effetto più grande sarà la trasformazione dei posti di lavoro. Gli esseri umani si troveranno a lavorare fianco a fianco con i robot”.



Veniamo ora all’aspetto forse più incisivo, quello antropologico: “Never say die” (mai dire morire) è il nuovo slogan di tante società high-tech, che esprime gli investimenti nella ricerca dedicata allo sviluppo sine die della vita, o sulla “vita eterna”, come alcuni un po’ enfaticamente affermano. Mark Zuckerberg finanzia il sito BioRxiv dedicato alla diffusione di articoli su argomenti medici e biologici, con lo scopo di accelerare la ricerca soprattutto nel campo delle neuroscienze. Secondo fonti di stampa (cfr ad esempio “La Stampa” del 28/04/2017), il finanziamento rientrerebbe in un progetto del valore di tre miliardi di dollari dedicato alla cura e alla prevenzione delle malattie. E allora? Sembra un passaggio insignificante, ma il salto da costose riviste scientifiche, dominio di pochi esperti, alla pubblicazione massiva di articoli tematici, anche grazie al potenziamento delle infrastrutture informatiche che gli investimenti renderanno possibile, farà circolare capillarmente i risultati della ricerca scientifica, attraverso i social media, così che tutta l’umanità si sentirà investita di questo nuovo, pionieristico traguardo e coopererà attivamente a possibili soluzioni. 

Del resto, l’interesse al tema è abbastanza comune nelle aziende della Silicon Valley: da chi – cito sempre da “La Stampa”- pianifica di vivere almeno 120 anni (Peter Thiel, uno dei cofondatori di PayPal), a chi giudica incomprensibile la nozione stessa di morte (Larry Ellison di Oracle), a chi intende curare la morte (Sergey Brin di Google).

Personalmente ho l’impressione di trovarmi di fronte a una specie di “totalitarismo antropologico”, come accennavo all’inizio, dove nuove frontiere del lavoro si mescolano quasi inconsapevolmente con nuove frontiere dell’umano, come, a mio parere, mai avvenuto in passato. A darcene un ulteriore esempio è ancora Elon Musk, che annoiato dal traffico di Los Angeles dedica un parte del suo tempo a sviluppare un progetto di edificazione di strade sotterranee dove le auto del futuro (come la sua “Tesla”) potranno essere calate da lunghi ascensori e correre a 200 all’ora; chi non ne sarebbe felice? Ma non sono, in fondo, i problemi legati al traffico il vero scopo di Musk: “io non voglio essere il salvatore di nessuno – dice -; sto soltanto provando a pensare al futuro e a non essere triste“. Vincere la tristezza che si manifesta in tanti punti della vita, come la noia in mezzo al traffico intenso. 

È una delle tante facce con cui una nuova epoca sta sorgendo e che si presenta certamente come una sfida radicale: siamo di fronte a una “assenza di pensiero”, per usare le parole di Hannah Arendt (“La vita della mente”), oppure di fronte a nuovi orizzonti di pensiero? Si tratta, ovviamente, di una domanda aperta.