PENSIONI E PREVIDENZA INTERGRATIVA.

Alla luce della recente Relazione Covip sulla previdenza complementare nel 2016 è possibile e doveroso trarre alcune considerazioni a conferma di trend ormai entrati nel dna del settore. La prima regolamentazione organica fu opera del primo Governo Amato nel 1993. Poi il “cantiere” fu riaperto dalla legge Dini del 1995 e infine (salvo qualche intervento di manutenzione), nel 2007, venne varata la riforma che rendeva disponibile il Tfr maturando come principale fonte di finanziamento delle forme di previdenza a capitalizzazione (fondi negoziali, aperti, preesistenti e Pip). Il settore, pertanto, si avvia verso una stagione matura, ma resta rachitico e soprattutto, come vedremo, continua a non fornire risposte adeguate alle finalità per cui venne istituito. Cominciamo dal suo “peso specifico”, che non è irrilevante. 



PENSIONI E PREVIDENZA, DIAMO I NUMERI.

Le risorse accumulate alla fine dell’anno considerato ammontano a 151,3 miliardi (+7,8% rispetto all’anno precedente) e costituiscono il 9% del Pil e il 3,6% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Gli aderenti sono 7,8 milioni. Questi ultimi dati, però, vanno ridimensionati, perché vi sono 620mila adesioni multiple (ovvero a più tipologie). Inoltre, nel 2016, non sono pervenuti versamenti da circa 2 milioni di iscritti. Ne deriva che il numero degli aderenti attivi è pari al 25,6% degli occupati. Delle risorse destinate alle prestazioni, il 40% è detenuto dai fondi preesistenti rispetto alla riforma del 1993 (sono ben 294 con 650mila aderenti: una realtà frantumata e a esaurimento), mentre i fondi negoziali si accontentano del 30%, i Pip del 20%. Il resto rimane ai fondi aperti. 



I Pip “nuovi” (78) continuano a crescere di numero più delle altre forme (+10,3% nel 2016) e ad avere la maggior quota di aderenti (2,9 milioni, contro i 2,6 milioni dei 36 fondi negoziali e 1,3 milioni dei 43 fondi aperti). Il successo dei Pip (le polizze individuali “fai da te”) sta a dimostrare l’esistenza di una domanda che le organizzazioni sociali non sono in grado di soddisfare con modalità collettive. 

PENSIONI, I FALLIMENTI NEL LAVORO AUTONOMO E NEL LAVORO DIPENDENTE DELLA PA.

Oltre al vistoso fallimento nel lavoro autonomo (i “renitenti” alla contribuzione appartengono in prevalenza a questa categoria), rimane il mancato decollo della previdenza a capitalizzazione nel lavoro dipendente delle pubbliche amministrazioni. È a questo punto che si può constatare come sia stato eluso una delle principali finalità dei fondi pensione e delle altre forme: aiutare con una “pensione” di scorta le future generazioni sulle quali si scaricheranno in prevalenza gli effetti delle riforme dei regimi obbligatori. Anzi, la maggiore protezione garantita alle generazioni più anziane (che restarono, nel 1995, in tutto o in parte nel sistema retributivo) venne motivata in ragione del fatto che, per loro – diversamente dai giovani neo-assunti – era ormai compromessa la possibilità di avvalersi di un secondo pilastro.



La tabella che segue è invece la prova evidente che è successo tutto il contrario: che i giovani non sono stati in grado di aderire alla previdenza privata (in conseguenza della loro posizione sul mercato del lavoro con forme contrattuali precarie e che non prevedono il Tfr e dei costi della previdenza obbligatoria), mentre se ne avvalgono le generazioni appartenenti alle coorti nella fase centrale della vita lavorativa, più stabili, garantite e sindacalizzate.

PENSIONI E L’ETEROGENESI DEI FINI.

La seconda “eterogenesi dei fini” riguarda la caratteristica delle prestazioni. Nella logica della “seconda pensione”, complementare alla prima (obbligatoria), il legislatore ha privilegiato l’erogazione della rendita, ma gli utenti no. Delle spese sostenute dalla diverse forme, solo 700 milioni circa si sono tradotti in rendite; le prestazioni in capitale sono ammontate a 2 miliardi, i riscatti a 1,6 miliardi, le anticipazioni (gran parte non connesse a cause specifiche come le spese sanitarie e immobiliari) si sono attestate a 2 miliardi. In sostanza, l’adesione a una forma a capitalizzazione è divenuta una modalità di risparmio, agevolata sul piano fiscale. La terza “speranza delusa” è la seguente: la costituzione di una rete diffusa di fondi pensione e di altri strumenti di previdenza privata, in qualità di investitori istituzionali, doveva servire – come avviene in altri Paesi – a incrementare il mercato dei capitali e di conseguenza l’economia. Invece, la grande maggioranza (61%) degli investimenti si rivolge ai titoli di debito, in particolare (in misura dei 3/4) ai titoli di Stato (non solo italiani). 

PENSIONI, TFR E FONDO PENSIONI.

Una considerazione interessante, a tal proposito, è quella di Stefano Patriarca sul Sole-24ore on line dell’8 giugno scorso. Scrive l’autorevole consigliere della Presidenza del Consiglio che “l’elemento sul quale riflettere è anche un altro: in Italia la maggior parte della contribuzione ai fondi deriva dal Tfr, una forma di liquidità a disposizione delle imprese che diventa contributo al fondo pensione. Ebbene, la Covip calcola che in 10 anni circa 50 miliardi di Tfr, prima nella disponibilità delle imprese, sia confluito nei fondi pensione; a fronte di questo flusso si può stimare che solo attorno ai 7 miliardi sia stata la quota di finanziamento destinata alle imprese italiane. Si può dire – conclude – che la previdenza integrativa ‘all’italiana’ abbia contribuito a ridurre piuttosto che ad aumentare le liquidità aziendali proprio negli anni della crisi”.