Molto spesso (per non dire quasi sempre) i lavoratori subordinati vengono assunti con patto di prova, il quale ha lo scopo di consentire al datore di lavoro e allo stesso lavoratore di valutare – per un periodo di tempo stabilito dalla contrattazione collettiva e che per legge non può essere comunque superiore a sei mesi (il c.d. “periodo di prova”) – la reciproca convenienza a rendere definitivo il rapporto di lavoro. Ma non sempre il patto è valido. Ad esempio, il patto di prova è invalido se non è stipulato in forma scritta e se non contiene l’indicazione specifica delle mansioni che dovranno essere svolte dal lavoratore. 



Al riguardo, la Cassazione ha chiarito (anche recentemente, con sentenza del 13/04/2017 n. 9597) che può essere sufficiente anche il mero riferimento al sistema classificatorio previsto dalla contrattazione collettiva se consente di individuare con precisione i compiti del lavoratore. In caso contrario, il patto di prova è nullo e il rapporto di lavoro in prova si trasforma in un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Un caso ulteriore di nullità si verifica quando il patto di prova sia stato stipulato dopo l’assunzione o quando il lavoratore sia chiamato a svolgere la medesima attività già svolta a favore dello stesso datore di lavoro, in virtù di precedenti rapporti (anche se formalmente qualificati come autonomi). Ad esempio, nel caso esaminato dalla Cassazione con sentenza del 12/09/2016 n. 17921, il patto di prova era stato dichiarato nullo poiché era risultato che il lavoratore, nei due anni precedenti l’assunzione, aveva svolto, come collaboratore a progetto, le medesime mansioni di docente di materie informatiche che era stato chiamato a svolgere successivamente come lavoratore subordinato. 



Il patto di prova apposto al contratto di lavoro consente al datore e al dipendente, una volta espletata la prova, di recedere dal rapporto di lavoro senza obbligo di preavviso o di pagamento della relativa indennità sostitutiva e senza obbligo di motivazione. In particolare, il datore di lavoro potrà licenziare il dipendente per mancato superamento del periodo di prova senza necessità di addurre una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo o oggettivo di licenziamento. Ma cosa succede se il datore di lavoro licenzia il dipendente per mancato superamento del periodo di prova sull’erroneo presupposto della validità del patto o dopo la scadenza del periodo di prova? 



È chiaro che il recesso del datore durante il periodo di prova può essere legittimamente intimato senza motivazione soltanto se il patto che lo prevede è valido e soltanto prima della scadenza del periodo di prova. Altrimenti, il recesso va considerato come un “ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo” (Cass. 12/09/2016, n. 17921). Meno chiaro è quale sia il regime concretamente applicabile al licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova viziato da nullità (o intimato dopo la scadenza del periodo di prova) per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, nei confronti dei quali trova applicazione il decreto legislativo n. 23 del 2015 (che costituisce uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act). Quest’ultimo ha introdotto, infatti, differenti regimi di tutela per le diverse ipotesi di invalidità del licenziamento, senza prevedere nulla di specifico con riferimento al caso del licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova viziato da nullità. 

Su quale sia, in base alle nuove norme, il regime applicabile a questo specifico caso di illegittimità del licenziamento non esiste un orientamento univoco da parte della giurisprudenza di merito. Secondo alcune sentenze, il Giudice dovrebbe annullare il licenziamento e condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione (comunque non superiore a dodici mensilità). Secondo queste sentenze, e in particolare secondo la sentenza del Tribunale di Torino del 16/09/2016, sarebbe applicabile, a questa specifica ipotesi di illegittimità del licenziamento, la tutela prevista dall’art. 3, comma 2, del D. Lgs n. 23 del 2015, per i casi di “licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”; e ciò in ragione del fatto che il licenziamento sarebbe “sfornito di giustificatezza nella sua massima accezione, essendo un licenziamento ad nutum al di fuori delle ipotesi consentite, ma nella sostanza può essere ricondotto alla sfera soggettiva del lavoratore” (in quel caso, il Giudice ha accertato che il mancato superamento del periodo di prova era dovuto al fatto che il lavoratore aveva chiesto a un cliente di essere assunto). Alle medesime conclusioni è giunto anche il Tribunale di Milano, con sentenza del 3 novembre 2016. 

Lo stesso Tribunale di Milano, con sentenza dell’8 aprile 2017, è giunto invece a una diversa conclusione, ritenendo inapplicabile la tutela reintegratoria, prevista dal comma 2 dell’art. 3 del D. Lgs. n. 23/2015, e applicando invece la tutela indennitaria, prevista dal comma 1. Il Giudice lombardo ha affermato che il licenziamento intimato per mancato superamento della prova viziata da nullità non può essere assimilato al licenziamento per giusta causa, di cui sia stata dimostrata l’insussistenza del fatto materiale, poiché il mancato superamento della prova non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante (anche quando sia legato alle valutazioni aziendali circa le qualità professionali, il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione). Il Tribunale ha quindi ritenuto che, in presenza di un patto di prova nullo, il recesso motivato con riferimento al mancato superamento della prova sia “meramente ingiustificato”, al pari del licenziamento intimato in assenza di giusta causa e di giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Il Giudice ha quindi dichiarato estinto il rapporto di lavoro e ha condannato la Società al pagamento di quattro mensilità di retribuzione (in ragione della anzianità di servizio del lavoratore, inferiore a due anni). 

Tra i due orientamenti che si contrappongono, la differenza non è da poco: da una parte, la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno commisurato alla retribuzione dal giorno del licenziamento alla reintegra; dall’altro, la conferma dell’estinzione del rapporto e un risarcimento di appena quattro mensilità. Ed è su questa differenza che dovrà pronunciarsi quanto prima la Cassazione, in mancanza di un’espressa previsione da parte della legge.