Un grido di allarme percorre l’Italia da Nord a Sud. Il Governo è intenzionato – a quanto si dice – a elevare l’età pensionabile arrivando a 67 anni – tondi tondi – a partire dal 2019. Sinceramente ci stiamo chiedendo dove stia la notizia e che bisogno ci sia di un provvedimento da adottare addirittura sotto elezioni, dal momento che ogni manuale – se attentamente consultato – ci offrirebbe la tabella a fondo pagina rispetto a quanto predisposto nella riforma del 2011. In sostanza, se abbiamo ben compreso si tratterebbe di pareggiare il conto, anche assumendo dal 2018 il criterio dell’adeguamento biennale all’attesa di vita. Ma l’equivoco non è questo. Riguarda invece l’insistenza con la quale si sostiene che gli italiani sono condannati ad andare in quiescenza a 67 anni che sarebbe poi il requisito anagrafico più elevato d’Europa. 



Sarebbe sufficiente, per sapere come stanno veramente le cose, leggere con attenzione i rapporti, frequenti e precisi, del Coordinamento attuariale dell’Inps. Si scoprirebbe che la grande maggioranza degli nuovi pensionati (soprattutto se maschi) continua a varcare l’agognata soglia poco più che sessantenni. Certo, se ci si ferma ai trattamenti di vecchiaia nel 2016, con riguardo ai principali regimi privati dei lavoratori dipendenti e autonomi, l’età media alla decorrenza è stata pari a 66 anni (66,8 gli uomini e 65,1 le donne). I dati cambiano di pochi decimali di punto nei primi due mesi dell’anno in corso. 



Va ricordato che, nel caso della vecchiaia, incide molto la parificazione tra generi, già avviata dall’ultimo governo Berlusconi e accelerata dalla legge del 2011. Tanto che, rispetto ad allora, l’età media alla decorrenza per i maschi è cresciuta di 0,9 anni, mentre sono stati 3,7 anni per le donne (che sono le sole effettivamente penalizzate perché “costrette” nella generalità dei caso a usare l’uscita della vecchiaia perché non dispongono dei contributi necessari per l’anticipo). Diverso è il trend delle pensioni anticipate/di anzianità. Dal 2012 (quando è entrata in vigore la disciplina “stramaledetta”) fino a febbraio di quest’anno, sono state liquidate più di 600mila pensioni anticipate, contro 450mila prestazioni a titolo di vecchiaia. E a quale età media si è varcata, in anticipo, l’agognata soglia? Nel 2016 a 60,7 anni (dato complessivo per uomini e donne di tutte le gestioni considerate: 61,1 i primi e 59,8 anni le seconde); due decimali in più nei primi mesi del 2017. 



Sul numero dei trattamenti di anzianità hanno influito molto le uscite dei cosiddetti esodati, i quali – grazie alle salvaguardie – sono stati in grado di utilizzare quella tipologia di quiescenza per di più secondo le regole ante-riforma (per questi motivi rifiutano di avvalersi dell’Ape – che si ottiene a 63 anni – e continuano a rivendicare ulteriori “libere uscite”). Si tenga, poi, presente che, considerando lo stock delle gestioni prese in esame, le pensioni di anzianità sono 4,2 milioni (per una spesa annua di 90 miliardi) e nel 78% dei casi erogate a lavoratori; quelle di vecchiaia 4,8 milioni (per un ammontare di 42,8 miliardi) per due terzi riservate a lavoratrici. Un altro fattore cruciale (non incluso nella busta arancione) per qualsiasi sistema pensionistico è quello demografico. Secondo le previsioni dell’Istat, per quanto riguarda la speranza di vita alla nascita, tra 40 anni, in Italia, i nati maschi avrebbero un’aspettativa di oltre 86 anni e le femmine di 91. All’età di 80 anni, i maschi avrebbero in media ancora circa 12 anni da vivere e le femmine oltre 14. 

Nella Legge di bilancio 2017 è stata introdotta, poi, una norma di carattere strutturale che consente un percorso di anticipo per i cosiddetti lavoratori precoci (con 12 mesi di versamenti contributivi prima dei 19 anni) in grado di far valere talune condizioni di disagio e di difficoltà (una barriera fragile che sarà presto sfondata). Ci sono almeno 3,5 milioni di lavoratori che – con i 41 anni di contributi richiesti ancorché “indicizzati” all’attesa di vita – potranno presentarsi, man mano, all’appuntamento con la pensione ad un’età intorno a 60 anni. Ma il grido di allarme delle ultime ore si è esteso anche al “tappo” che una maggiore età pensionabile determinerebbe sulle assunzioni dei giovani. Si tratta di un’altra fake news da smentire. Gli effetti sono limitati. 

Secondo un contributo del 2016 di Boeri, Garibaldi e Moen ricavato dal monitoraggio su 80mila imprese (con più di 15 dipendenti) nel periodo intercorrente tra il 2008 e il 2014, per ciascun lavoratore “bloccato” per una durata di cinque anni si è perduto circa un nuovo occupato. Proiettando questo esito sull’insieme delle imprese con più di 15 dipendenti rimaste attive per tutto il periodo considerato, i nuovi requisiti per l’accesso al pensionamento avrebbero ridotto le assunzioni di 37mila unità. Vi è poi un’ analisi dell’Inapp (ex Isfol) condotta nel 2015 su di un campione di 30mila imprese del settore privato extra-agricolo, dalla quale risulta che la riforma Fornero avrebbe prodotto un cambiamento nei piani di assunzione programmati nel periodo 2012-2014 solo nel caso del 2,2% delle aziende considerate, con la conseguenza di mancate assunzioni per 43.285 dipendenti. In sostanza una perdita di nuovi ingressi pari a circa lo 0,5% del totale dei dipendenti stimato nel 2014 (poco meno di 9,5 milioni). Ovviamente, si tratta di stime. 

Non ci nascondiamo l’importanza di qualche migliaio di assunzioni in più. Ma siamo lontani dalla soluzione della disoccupazione giovanile, che è determinata anche dall’ampiezza del cuneo fiscale e contributivo. Un’ampiezza fortemente prodotta da un’aliquota contributiva pensionistica pari al 33% e comunque ancora inadeguata a coprire interamente la spesa. È interesse dei giovani che cercano un impiego aumentare questa spesa e rendere più elevato il costo del lavoro, mandando in pensione persone ancora in grado di lavorare?