Ostacolo più che risorsa. È questa la convinzione che sempre più di frequente tende a farsi strada nel dibattito sui temi riguardanti il funzionamento della Pubblica amministrazione e il ruolo dei dipendenti pubblici nel nostro Paese. Tra ampie sacche di inefficienza, potenzialità inespresse e vincoli finanziari, l’Amministrazione italiana da tempo è in attesa di un radicale cambiamento che le stesse stagioni riformistiche degli ultimi decenni non sembrano avere realizzato a pieno. Accade, così, che la crescente domanda di etica pubblica e trasparenza indotta dagli elevati livelli di corruzione, che purtroppo affliggono ancora il nostro Paese, si accompagni a questioni ancora aperte e parimenti rilevanti, come quelle di una virtuosa riconsiderazione del rapporto con cittadini e corpi intermedi, della definizione di modelli di relazione cooperativa tra i diversi livelli di governo utili a semplificare la vita delle comunità locali, della qualità degli strumenti di programmazione e valutazione delle politiche pubbliche e della responsabilità dei dirigenti. Ma con quale prospettiva addentrarsi in questo vasto e intricato mondo? Quale valore può ancora rappresentare l’impegno professionale nell’amministrazione pubblica?



Più di mezzo secolo fa, parlando ai vescovi italiani, Paolo VI li invitava già, profeticamente, a riconoscere la portata di una crisi di cui oggi osserviamo gli effetti nel decadimento e nelle lacerazioni che segnano tante espressioni della vita pubblica italiana. In assoluta continuità con quell’invito, ben più di recente papa Francesco ha sottolineato come quello che stiamo vivendo non è “un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”, che richiede di “vivere i problemi come sfide e non come ostacoli”. Puntare semplicemente al ritorno di equilibri passati o alla difesa di quelli esistenti sarebbe perciò un errore fatale, specie per chi riveste responsabilità professionali a servizio della collettività.



Così, mentre la Corte Costituzionale ha imposto una significativa battuta d’arresto alla rivoluzione della dirigenza pubblica del Ministro Madia (l’ultima era stata quella di Brunetta nel 2009), è utile riflettere sulla reale origine del malessere che la Pubblica amministrazione italiana attraversa, identificando caratteri e contenuti della sfida sottesa al quotidiano impegno professionale profuso dietro la scrivania di un ministero, di un assessorato o anche di un semplice ente della sconfinata galassia pubblica. Vizi e privilegi dei dipendenti pubblici, cattivo funzionamento degli uffici e corruzione sono, giustamente, argomenti ricorrenti nelle inchieste e nelle azioni denuncia dei media.



Ma non di rado ci troviamo di fronte a esasperate generalizzazioni e disarmanti semplificazioni concettuali come quella, ad esempio, di identificare solo in dipendenti (meglio se dirigenti) ignavi o corrotti la causa delle tante inefficienze e delle vessazioni consumate a danno di cittadini e imprese, senza alcun riferimento critico alla produzione legislativa del nostro Paese, che per quantità e livello di complicazione può assurgere a vero e proprio fattore criminogeno.

Senza scomodare Tacito col suo “corruptissima re publica plurimae leges” viene in mente, in tempi assai più recenti, il richiamo formulato al riguardo dal Presidente della Corte dei Conti durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016. Tuttavia il classico rimpallo di responsabilità tra la politica che fa le leggi e la dirigenza che deve applicarle si rivela sempre un esercizio sterile. Ciò che urge è, piuttosto, una responsabile presa di coscienza sulla radice antropologica della questione, che oggi appare prioritaria rispetto ad approcci puramente organizzativi e funzionali. Al riguardoè la stessa complessità sociale, economica e tecnologica del nostro tempo ad avere sostanzialmente obliterato un modello di amministrazione ancora largamente influenzato dal paradigma hobbesiano, nonostante l’espressa codificazione della sussidiarietà orizzontale in Costituzione.

L’idea di uomini tendenti, per natura, a sbranarsi tra loro in funzione dei propri interessi imporrebbe la necessità di cedere spazi di libertà individuale o sociale allo Stato in funzione di un ordine e di una convivenza altrimenti impossibili. Dunque un’insuperabile distinzione tra i fini della società e dei suoi componenti (singoli o aggregati che siano), essenzialmente egoistici e circoscritti, e gli scopi dell’Amministrazione tendente a configurarsi, invece, come unico possibile interprete e attuatore dell’interesse pubblico. Può dirsi ancora questo il fondamento di quella dimensione autoritativa e sovraordinata dell’azione amministrativa che spesso siamo costretti a subire nelle sue storture, anche da semplici cittadini.

Come uscirne?Sono molti a ritenere che basterebbe ridimensionare le competenze e l’organizzazione di apparati pubblici ridondanti: troppi dipendenti, troppi uffici e troppe risorse pubbliche sottratte a impieghi più produttivi. I dati dell’ultimo Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato sul confronto con i principali partner europei sembrano, però, suggerire altro. I dipendenti pubblici italiani sono meno di quelli di francesi, inglesi e tedeschi e la spesa per il lavoro pubblico nel nostro Paese è minore di quella di Francia, Regno Unito e Germania, mantenendo un’incidenza sul Pil inferiore a quella di Spagna e Francia e lievemente al di sotto anche della media europea.

Forse il vero problema sta altrove come, ad esempio, in un’Amministrazione pubblica fatta da dipendenti con un’età media di 50 anni e un’anzianità di servizio media di quasi 20. La scarsa propensione all’innovazione e l’inefficienza che spesso lamentiamo nei diversi settori pubblici forse sono da mettere in relazione proprio con l’inadeguato mix generazionale e la mancanza di interventi utili a riallineare in chiave motivazionale, professionale e formativa il capitale umano esistente alle urgenze dettate da un tessuto socio-economico in continua evoluzione. È vero che i tentativi di correre ai ripari da parte della politica non sono mancati, ma battendo quasi esclusivamente sul tasto dell’organizzazione e del binomio obbligo/sanzione il più delle volte hanno finito per perdere di vista la centralità del soggetto la cui considerazione appare, invece, decisiva in questo percorso di riforma.

L’esito è sotto gli occhi di tutti: un’Amministrazione pubblica ancor oggi sul banco degli imputati. Si può ben dire, infatti, che al di là degli intenti dichiarati e degli sforzi, tali riforme sono spesso apparse, nella loro fase attuativa, dal determinare una reale alternativa a quello schema hobbesiano che è stato richiamato in precedenza. Restituire qualità ed efficienza agli apparati pubblici richiede, forse, di tornare a investire proprio sulla persona e sul suo consapevole protagonismo, motivazionale e professionale, identificandolo come la prima risorsa di quella vera e propria “transizione culturale” di cui l’Amministrazione necessita. Smarrire questa prospettiva potrebbe risultare davvero esiziale, così come già insegnano, nel campo della ricerca economica, gli studi del premio Nobel Heckman sul ruolo dei no cognitive skills. Nel caso della Pubblica amministrazione probabilmente si tratta di tendere alla ricomposizione di quella che può essere definita come una vera e propria “comunità professionale” posta al servizio della Nazione.

Colpiscono, al riguardo, le parole di Piercamillo Davigo, che lo scorso anno, durante un convegno sulla corruzione, dichiarava: “Ciò che distingue la Pubblica amministrazione italiana da quella francese o britannica è l’orgoglio di appartenenza, che qui manca. Per decenni si è raccontato che i nostri dipendenti pubblici sono fannulloni o nella migliore delle ipotesi inefficienti. Non ci vuole molto a distruggere l’orgoglio di appartenenza, ma per ricostruirlo ci vogliono generazioni”. Solo questa ritrovata dimensione comunitaria potrà essere efficacemente contrapposta all’idea di “casta”, caratterizzata da un vincolo tra omologhi in funzione di interessi di status da tutelare o accrescere a ogni costo. Con uno slogan si potrebbe perciò sintetizzare: dalla casta alla comunità professionale.

Condizione essenziale di un tale passaggio è quella di riconoscere che anche nel settore pubblico, così come in altri ambiti della nostra società, siamo di fronte a una vera e propria emergenza educativa. Infatti, in mancanza di esperienze capaci di fondare e sostenere adeguatamente una tensione ideale, declinandola secondo la specificità dei diversi contesti professionali e organizzativi, gli stessi strumenti previsti dalla normativa anticorruzione per creare un clima etico negli uffici pubblici, che pure costituiscono un’occasione da utilizzare al meglio, rischierebbero di essere confinati a mero adempimento di legge, teso per lo più, a evitare potenziali responsabilità, come ha sottolineato nel 2016 nella sua Relazione al Parlamento il Presidente dell’Anac Cantone.

È questo lo scenario in cui può rivelarsi assai rilevante il ruolo di soggetti e istituzioni sociali che, operando nell’ottica di vere e proprie comunità professionali, sappiano promuovere e valorizzare strumenti di ricerca, di confronto, di valutazione delle esperienze in atto e di divulgazione della conoscenza, anche in chiave formativa, senza rinunciare all’indispensabile contributo di analisi critica e di proposta degli stessi stakeholders esterni all’Amministrazione. Quella descritta è una dinamica che scoraggia sul nascere l’idea di demandare il cambiamento, di cui tutti avvertono la necessità, a visioni utopiche o a taumaturgici interventi politici, in vista dei quali giustificare la propria personale inerzia morale e lavorativa con l’irrilevanza del singolo comportamento rispetto ad un intero sistema che non funziona.

Per quanti operano professionalmente nella Pubblica amministrazione un punto dev’essere estremamente chiaro: la battaglia per il cambiamento prima che attorno a sé è dentro di sé! Si tratta, perciò, di impegnarsi a riconoscere, mettere in comune e valorizzare, anche sul piano della conoscenza e della ricerca, i frutti di una novità già in opera, innanzitutto tra quanti questa battaglia scelgono di combatterla ogni giorno dietro la scrivania di un ministero o di un assessorato. Abituarsi a guardare ciò che c’è, cercando magari di capire perché c’è, più che attaccarsi a quello che manca. È questo l’esercizio quotidiano richiesto per non smarrirsi nei meandri di uno scetticismo e di un cinismo altrimenti corrosivi.

Si tratta di una “conversione” dello sguardo nei confronti di una realtà complessa e spesso contraddittoria come quella dell’Amministrazione pubblica, che verosimilmente costituisce l’approccio necessario anche per concepire proposte di riforma adeguate alle reali necessità, imparando a discernere e mettere a sistema, anche sul piano legislativo e programmatorio, ciò che di buono una comunità di lavoro riesce già a produrre e ciò che, invece, merita di essere effettivamente corretto.

L’itinerario non è esente da rischi. Ne esiste uno che è il peggiore di tutti: sognare sempre “sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono”. Proiettare solo sulla perfezione dei sistemi normativi e organizzativi, che pure necessita, ciò che ultimamente scaturisce dalla responsabilità espressa in chiave motivazionale dalla persona servirebbe solo a smarrire significato e concretezza storica di quel bene comune, al cui servizio l’Amministrazione è posta, che nella sua natura rimane più intima rimane pur sempre il frutto di una libertà umana posta in relazione con le aspirazioni più profonde del cuore.

Si tratterebbe di un clamoroso inganno dagli esiti devastanti, sui quali ci ammoniscono le parole del poeta Hölderlin: “Tutte le volte che l’uomo ha voluto fare dello Stato il suo cielo, lo ha trasformato in un inferno”.