Tito Boeri, noto studioso del mondo del lavoro, attuale presidente dell’Inps, demolisce le teorie dei populisti. Lo fa nel libretto “Populismo e stato sociale” (43 pagine, Laterza), dove riprende una lectio magistralis tenuta a Torino il 29 marzo scorso. Il populismo si afferma come reazione alle sfide della globalizzazione, con l’illusione che le persone più in difficoltà possono trovare risposta alle loro esigenze solo chiudendo e proteggendo diritti, o presunti tali, prerogative, quindi le frontiere. È un no netto all’idea di “società aperta”.
La posizione di Boeri è chiara: i populisti danno risposte sbagliate a problemi veri. Le risposte vere non possono, però, non passare attraverso un ripensamento dello “stato sociale”, in un contesto europeo. Cosa propongono i populisti? Ricette che valgono per l’immediato, come accade in America Latina, ma che alla lunga si rivelano controproducenti, se non catastrofiche. Anche la crisi dell’idea di Brexit in Inghilterra dovrebbe far riflettere. Servono i muri, le barriere, il mito “prima gli americani”, “prima gli italiani”? Questo principio si rivela un boomerang, perché ignora le conseguenze di lungo periodo. Il populismo “ha un carattere autodistruttivo”: avremo leader che nascono e dopo poco saranno già solo un ricordo.
Oggi i movimenti populisti sono al potere in sette Paesi (Finlandia, Grecia, Lituania, Norvegia, Slovacchia, Svizzera, Ungheria) e sono primo partito in cinque Paesi, tra cui l’Italia. Quindi, conclude Boeri, “al potere lo sono già”, perché condizionano anche l’agenda politica degli altri partiti. Il core business è la domanda di protezione sociale, in particolare del vecchio “ceto medio”, quello che ha maggiormente sofferto per globalizzazione e invadenza delle nuove tecnologie. La “casta” viene individuata come struttura corrotta che sta a monte di quel confine, dunque del rischio della povertà.
L’Europa, peraltro, se non ha tolto sovranità agli Stati membri è stato proprio sulle politiche sociali: non esiste un’Europa sociale, magari esistesse! Basta dare un’occhiata ai dati sulla disoccupazione e alle forme di protezione sociale, alle politiche giovanili, alla famiglia. A questo punto, l’immigrazione è diventata il capro espiatorio. Dimentichi tutti di come sono stati a suo tempo trattati i nostri migranti.
Cosa dicono i dati, in Italia? Che i migranti versano ogni anno 8 miliardi di contributi sociali e ne ricevono solo 3 per pensioni e prestazioni sociali. Cinque miliardi valgono un punto di Pil. Se poi diamo un’occhiata ai dati demografici, con gli italiani che fanno sempre meno figli, facile intuire come tutta la questione debba essere vista sotto altra forma. Chiudere perciò la mobilità del lavoro è un danno per tutti, in primis per i nostri ragazzi che possono fare esperienze all’estero: “È la migliore assicurazione contro la disoccupazione oggi disponibile in Europa”.
Le risposte? Le classi dirigenti devono farsi un bell’esame di coscienza sui loro vecchi privilegi. Boeri qui fa l’esempio dei vitalizi, per i parlamentari e i consiglieri regionali. E sono note le sue proposte, mai accolte, per un loro ricalcolo contributivo. Un bell’esame di coscienza deve accompagnare anche il mondo sindacale, il quale, per la maggior parte delle sigle, si limita a difendere i già garantiti e non protegge i più deboli. Se, poi, i sistemi di protezione sociale, adottati nei singoli Paesi europei, sono stati sino a oggi solo una risposta a crisi temporanee (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione), si tratta ora di progettare politiche comuni. Servono interventi strutturali con “strumenti che facilitino la ricollocazione professionale, il cambiamento di lavoro”, con forme di protezione della mobilità territoriale. Con al centro la riqualificazione, in termini di effettivo “servizio pubblico”, del mondo della formazione, nelle scuole e nelle università, come sul posto di lavoro.
Oltre a questi provvedimenti ci vuole – secondo Boeri – un “paracadute”, cioè il reddito minimo, “condizionato a un impegno attivo nella ricerca di un impiego”. Solo così si realizzerà un “patto tra generazioni”, per ridurre al massimo le asimmetrie tra chi oggi è in pensione e chi invece si appresta a entrare nel mondo del lavoro. Ci vuole più Europa: “Senza l’Europa – conclude Boeri – senza una forte voce collettiva, saremo sempre troppo piccoli per contare quando si tratterà di affrontare e, speriamo, risolvere i grandi problemi di governance della gloalizzazione e del progresso tecnologico”.