Settimana scorsa la Commissione Lavoro della Camera ha approvato il documento conclusivo (Doc. XVII n. 17) di un’indagine (avviata nel 2015 su impulso dell’on. Marialuisa Gnecchi) “Sull’impatto in termini di genere della normativa previdenziale e sulle disparità esistenti in materia di trattamenti pensionistici tra uomini e donne”. Per compiere l’indagine sono state organizzate numerose audizioni non solo dei soggetti istituzionali competenti (Istat, Inps, ecc.), dei rappresentanti delle organizzazioni economiche e sociali, ma anche di esperti e studiosi della materia che hanno fornito interessanti contributi e statistiche. Il documento è ampio, equilibrato, ricco di dati e di confronti internazionali, portatore di proposte significative sia di carattere strutturale che immediatamente operative.
Nei limiti di questo articolo è necessaria una sintesi che forzatamente rischia di mortificare un lavoro significativo, se non altro per l’evidenziazione di un problema che non è solo del nostro Paese. Viene chiarito preliminarmente che le differenze di genere nei trattamenti pensionistici “rappresentano, in primo luogo, la trasposizione sul piano dei trattamenti previdenziali delle differenze esistenti nel mondo del lavoro, in quanto l’ammontare della pensione è strettamente correlato alla vita lavorativa conclusa con il collocamento in quiescenza ed è, pertanto, condizionato dalla misura delle retribuzioni percepite, dall’incidenza di periodi di astensione dal lavoro, dalla presenza di carriere lavorative frammentate e dal ricorso a forme di lavoro a tempo parziale, in molti casi non in conseguenza di una libera scelta, ma a causa dell’assenza di efficienti servizi di assistenza all’infanzia e alla persona”.
A queste condizioni si è cercato di supplire riconoscendo, in altri tempi, alle lavoratrici dei requisiti anticipati dell’età pensionabile. Ma questa “uscita di sicurezza” non solo non è più sostenibile per tanti motivi, ma è considerata discriminatoria nei confronti delle donne, da parte dell’Ue, che ha imposto, nel 2010, l’accelerata unificazione all’età degli uomini nel pubblico impiego. L’articolo 24, comma 6, della legge n. 214 del 2011 (la riforma Fornero) ha introdotto disposizioni volte a realizzare un percorso di convergenza verso un requisito uniforme per il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia tra uomini e donne anche per quanto riguarda il lavoro privato e quello autonomo, destinato a completarsi nel 2018.
La sola differenza rimasta è quella che riguarda il requisito contributivo per acquisire la pensione anticipata (inferiore di circa un anno per le donne), ma tale norma è già nel mirino dell’Unione. Del resto – fa notare il documento – il ripristino dei vecchi differenziali sulla base di un’idea tradizionale della funzione della donna nella famiglia, nel lavoro di cura e quant’altro, finirebbe per cristallizzare un ruolo da cui la donna vuole e deve emanciparsi. Tuttavia, per colmare i differenziali, non è sufficiente proclamare l’eguaglianza in astratto; è necessario, invece, tener conto delle differenze per consentire che l’uguaglianza tenda a essere effettiva.
Il documento passa, poi, in rassegna sia le modifiche normative che, sia pure in modo parziale e affastellato, hanno migliorato la condizione della donna sul lavoro (e quindi anche in vista della quiescenza) e, nello stesso tempo, ne evidenzia i limiti ancora sussistenti, specie dopo l’introduzione del sistema contributivo che mette in relazione il trattamento pensionistico con l’intera attività lavorativa e i contributi versati, penalizzando i percorsi non continuativi e interrotti. Anche per le donne, come per i giovani, tuttavia, il differenziale sulle pensioni non lo creano le regole, ma la vita. Come segnala il documento, in Italia, la durata media della carriera di una donna, infatti, è inferiore a venticinque anni, laddove quella dell’uomo è, in media, di circa trentanove.
Per questi motivi la lavoratrice è indotta ad andare in pensione di vecchiaia (quando, raggiunta l’età pensionabile, sono sufficienti vent’anni di contributi), che è il trattamento sul quale i cambiamenti normativi sono stati più onerosi, sul piano sociale, soprattutto per la lavoratrice in conseguenza della parificazione con le regole previste per gli uomini (i quali, invece, sono in larga maggioranza in grado di uscire anticipatamente avendo alle spalle, soprattutto nei settori privati, periodi lavorativi più lunghi, stabili e continuativi di quelli delle lavoratrici).
La situazione italiana non rappresenta un unicum a livello internazionale. La Commissione europea ha adottato ufficialmente due distinti indicatori volti a cogliere le disparità esistenti fra uomini e donne in materia di pensioni (gender gap in pensions): il differenziale di genere nel tasso di copertura pensionistica e il differenziale di genere nei redditi da pensione. Il primo indicatore misura la differenza fra la quota sulla popolazione di riferimento degli uomini che ricevono almeno un trattamento pensionistico e la corrispondente quota di donne, mentre il secondo indicatore assume come riferimento solo gli uomini e le donne che percepiscono trattamenti previdenziali e misura la differenza tra il reddito medio da pensione degli uomini e quello delle donne, misurato in percentuale rispetto al reddito degli uomini.
Quanto al primo aspetto, occorre considerare che – specialmente tra le coorti più giovani – il differenziale di copertura assicurato dal sistema previdenziale a livello europeo è relativamente contenuto e si colloca attorno al 7%, essendo la copertura per gli uomini pressoché completa e quella per le donne pari al 92%. Meno positiva, tuttavia, è la situazione dell’Italia che sconta una minore partecipazione femminile al mondo del lavoro. Nel 2012, pertanto, il differenziale di genere esistente nel tasso di copertura nel nostro Paese è stato pari al 15,4%, una misura più che doppia rispetto a quello riscontrato a livello europeo (6,9%).
Il dato assume, peraltro, particolare interesse se si considera che negli anni della crisi (2008-2012), il tasso di copertura nei Paesi dell’Unione europea è rimasto sostanzialmente stabile, essendo il differenziale di genere passato dal 6,6% del 2008 al 6,8% del 2012, con un picco del 7,2% nel 2011, mentre nel nostro Paese il differenziale, inizialmente pari al 10,3% è salito al 14,1% nel 2011 per poi raggiungere il 15,4% nel 2012. Come più volte evidenziato, le differenze di genere nel campo pensionistico sono il frutto delle diseguaglianze presenti nella storia lavorativa di uomini e donne, filtrate attraverso i meccanismi di trasformazione dei redditi da lavoro in trattamenti previdenziali.
Non deve, peraltro, trascurarsi la circostanza che le differenze riscontrate nella misura dei trattamenti pensionistici restituiscono una fotografia del mondo del lavoro di un periodo precedente: come avviene nelle osservazioni astronomiche di corpi celesti lontani, infatti, (l’immagine del documento è suggestiva) oggi possiamo esaminare un’immagine che corrisponde a una situazione anteriore, spesso di molto tempo.
Venendo, poi, agli elementi che contribuiscono alla determinazione delle disparità in materia pensionistica, assumono rilevanza, secondo il documento, le differenze esistenti tra uomini e donne nella partecipazione al mercato del lavoro, nel livello dei redditi da lavoro, nel numero delle ore lavorate e nella durata complessiva dei periodi di contribuzione, che incidono diversamente sui trattamenti previdenziali anche in ragione dei sistemi utilizzati nei diversi Paesi per il calcolo dei medesimi trattamenti. Quanto al primo dei profili segnalati, occorre infatti considerare che nell’intera Unione europea il tasso di occupazione femminile è inferiore a quello maschile, ancorché le situazioni siano abbastanza differenziate. Nel complesso dei 28 Paesi dell’Unione, il tasso di occupazione nella fascia di età tra 15 e 64 anni è, infatti, pari al 70,9% per gli uomini e al 60,4% per le donne, con un differenziale di genere di circa 10,5 punti percentuali. Tali dati trovano corrispondenza anche nei Paesi dell’area dell’euro, nei quali il tasso di occupazione maschile è del 69,7%, che, per la componente femminile, scende invece al 59,5%. Peraltro, i divari tendono ad ampliarsi nelle fasce di popolazione di età più elevata.
Per quanto riguarda il nostro Paese, in particolare, il tasso di occupazione femminile è sensibilmente inferiore a quello maschile: a dicembre 2015, il tasso di occupazione per le donne di età compresa tra 15 e 64 anni era pari al 47,1%, a fronte di un dato riferito agli uomini della medesima fascia di età, pari al 65,9%, con una differenza quindi di quasi 19 punti percentuali. Si tratta di un dato tristemente noto, che non potrà non riflettersi nel tempo anche sul differenziale di genere in materia previdenziale, tanto sotto il profilo del tasso di copertura del sistema pensionistico, quanto sotto quello della misura dei trattamenti riconosciuti. Con riferimento all’ammontare delle retribuzioni, occorre inoltre considerare che sussiste un divario retributivo di genere a danno della componente femminile del mondo del lavoro: assumendo come riferimento la differenza tra il salario orario medio lordo di uomini e donne espresso come percentuale del salario orario maschile, il gap tra uomini e donne è in media pari, nei Paesi dell’Unione europea, a circa il 16%. Nei Paesi dell’Ocse la situazione è sostanzialmente analoga, con una differenza nelle retribuzioni medie di poco inferiore, che si colloca attorno al 15,5%, mentre in Italia il dato è sensibilmente inferiore alla media europea e dell’Ocse, in quanto, nel 2014, il differenziale di genere è stato pari al 6,5%.
Pur nella consapevolezza dell’esistenza di un differenziale di carattere strutturale che ha le sue radici nell’economia, nelle politiche del lavoro e della conciliazione, il documento propone alcune misure correttive in grado di migliorare la situazione. In linea generale, occorrerebbe in primo luogo valorizzare, secondo il documento, tutti gli istituti capaci di ridurre gli effetti negativi della maggiore discontinuità delle carriere lavorative femminili. A tal fine sarebbe opportuno incrementare i benefici (accrediti figurativi, aumenti dell’importo pensionistico, facoltà di riscatto) in relazione a specifici eventi (quali la nascita e la malattia dei figli, l’assistenza a disabili e ad anziani non autosufficienti), soprattutto al fine di estenderli anche ai periodi al di fuori del rapporto di lavoro, rispetto ai quali la legislazione italiana risulta comparativamente più carente in confronto a quelle degli altri Paesi europei. Le donne, inoltre, beneficiano più degli uomini delle forme di sostegno dei redditi pensionistici più bassi: rappresentano l’81,4% dei beneficiari dell’integrazione al minimo e il 75,4% dei beneficiari delle maggiorazioni sociali.
Come è noto, la legge n. 335 del 1995 non prevede più l’integrazione al trattamento minimo e, se non si interverrà con misure a sostegno delle pensioni delle donne e di solidarietà infragenerazionale, la loro situazione è, purtroppo, destinata a peggiorare. Significativo del disordine esistente è un esempio fornito dal documento. Le nuove regole di accesso al pensionamento delle lavoratrici private hanno determinato situazioni profondamente differenziate, ben riassunte dai seguenti casi: una lavoratrice nata nel gennaio del 1952 ha potuto accedere al pensionamento di vecchiaia nel novembre del 2015; una lavoratrice nata nell’aprile del 1952 potrà accedere al pensionamento di vecchiaia nel gennaio del 2017; una lavoratrice nata nel maggio del 1952 potrà accedere al pensionamento di vecchiaia nel gennaio del 2018; una lavoratrice nata nel giugno del 1952 potrà accedere al pensionamento di vecchiaia nel giugno del 2019.
Sulla base di questo esempio, va riconosciuto, secondo il documento, che la manovra operata nel 2011 ha determinato significative criticità anche sotto il profilo dell’assenza di un’adeguata fase di transizione nell’applicazione dei nuovi requisiti per l’accesso al pensionamento, resa evidente, su un piano generale, dal fenomeno dei lavoratori “esodati”. Analoghe problematiche si manifestano, infatti, anche con riferimento all’innalzamento dei requisiti per l’accesso al pensionamento delle donne, tanto che si è parlato nella dottrina di una “rincorsa impossibile” della pensione, nel quadro di una normativa che ha prodotto veri e propri scaloni, creando disparità di trattamento non sempre ragionevoli tra platee di lavoratrici di età omogenea.