Si stanno concludendo anche quest’anno, con i colloqui, gli esami di maturità. Dagli oltre cinquecento ragazzi che, nelle mie scuole, sono passati attraverso questa “cruna dell’ago”, posso dire che li hanno affrontati in modo serio, anche con quello stress, con quell’ansia che sono tipiche di quelle prove della vita che sappiamo essere dei veri e propri “riti di passaggio”. Ricordo le chiacchierate, le richieste di consigli, la preoccupazione, anche se in gioco non era l’esito finale, visto che il 98%, dai dati degli scorsi anni, avrebbe comunque raggiunto l’agognata meta. A preoccupare non era l’esito, ma il percorso. Con, in più, quella sana preoccupazione “per il dopo”, in parte anticipata, per coloro che avevano le idee chiare, con i test di primavera, oppure con gli altri previsti per settembre. Mentre per tutti gli altri la “palla di vetro” non aveva ancora dato segnali precisi. La domanda di futuro, dunque.



Ma la cosa che sto trovando sempre più marcata è la convinzione che, nonostante tutto e tutti, una buona formazione di base viene percepita come la migliore garanzia per questo benedetto futuro che li sta attendendo a piene mani. Il migliore biglietto da visita, cioè, per la scelta universitaria e per le opportunità che, comunque, si presenteranno nel mondo del lavoro. Nei ragazzi, ma, in primis, nei loro genitori.



La buona formazione, dunque, come garanzia per le pari opportunità, come prevenzione delle disuguaglianze e delle varie precarietà descritte dalle tante statistiche che ci inseguono quasi ogni giorno. La cosa veniva poi confermata nella domanda finale dei colloqui di maturità: “e adesso? qual è il tuo sogno nel cassetto?”. E vedevi e sentivi questo moto di speranza, che la nostra responsabilità non può deludere o tradire. I nostri giovani, in poche parole, hanno maturato la convinzione dell’importanza della scuola e dell’università come luogo formativo a tutto tondo.



In un’indagine, di questi giorni, curata dall’Istituto Toniolo (Focus Scuola del Rapporto Giovani 2017), edita da Il Mulino, è emerso che sei giovani su dieci sono di questa idea. Solo il 9% è convinto che la formazione, al dunque, non serva per la vita. Per il restante sono dell’idea che aiuta a trovare comunque un lavoro migliore, prima o poi. Prima o poi?

La formazione, dunque. L’80% di questi giovani dai 18 ai 32 anni è convinto che la scuola serva anzitutto alla formazione delle persone. Un bel risultato. L’unico neo, se così si può chiamare, riguarda la richiesta di un maggiore raccordo col mondo del lavoro. Di qui il ruolo e la funzione essenziale, se fatta bene (ma sappiamo che la situazione è a macchia di leopardo), dell’alternanza scuola-lavoro, che andrà a regime il prossimo anno, e che entrerà di diritto nella valutazione finale, alla maturità, tra due anni. Se fatta bene, ovviamente.

I nostri imprenditori, i professionisti, tutti i titolari di un’attività, pubblica o privata, sono consapevoli di questo valore, e di questa richiesta? Lo scorso anno solo l’8,8% delle aziende ha accolto studenti, quest’anno il 9,7%. Coloro che hanno accolto studenti l’hanno fatto, in media, per 1,3 ragazzi, con una presenza che va da una a tre settimane. Con la collaborazione dei genitori, nel mio liceo, ad esempio, sto sperimentando per il secondo anno il “colloquio di lavoro” per i 450 ragazzi delle classi terze. Ma andiamo oltre.

Il che significa che i ragazzi oggi sono consapevoli che un titolo di studio non abilita automaticamente a un percorso lavorativo in linea con la propria preparazione e specializzazione? Io sono convinto che i ragazzi di oggi lo sappiano, perché lo sentono e lo vivono attraverso i loro compagni più grandi, le tante informazioni e le preoccupazioni che percepiscono da più parti. Sono cioè disponibili e pronti anche a un’iniziale precarietà: basta, però, che sia foriera di altre pari opportunità, cioè di equità. Questo il punto.

Nella recente audizione del presidente dell’Istat alla Camera, Giorgio Alleva, si è parlato, appunto, di equità generazionale e di sistemi previdenziali. Già oggetto di diversi intervento di Tito Boeri. Lo studio universitario e post, cioè specialistico, comporta, appunto, per Alleva un rischio concreto: la precarietà. Perché la troppa formazione, cioè la specializzazione, non sempre trova opportunità di pari grado. Di qui il paradosso che sta accompagnando molti giovani, rispetto ai loro padri e madri: troppo preparati, ma con il rischio di una minore qualità occupazionale.

La precarietà, secondo Alleva, cresce con titoli di studio sempre più specialistici: è pari al 21% per coloro che hanno terminato la scuola dell’obbligo, è del 35% per coloro che hanno conseguito una laurea. Questo, ovviamente, non significa che i titoli di studio non valgano, nel corso degli anni lavorativi. Ma che, in molti casi, sia difficile, problematico, complicato l’ingresso nel mondo del lavoro.

Giovani laureati, dunque, costretti a lavori atipici, nei primi anni. Quanti percorsi di laurea, ad esempio, sono patenti per la precarietà a vita, mentre altre invece risentono di pochi iscritti? I test d’ingresso e il numero chiuso fanno da mediatori per queste criticità? Se pensiamo alla storia pensionistica, per i prossimi decenni, di questi giovani le cose si complicano ulteriormente. Per molti, per tanti, il pensionamento tarderà ulteriormente e con un assegno non significativo. Solo il 16% ha sottoscritto, ad esempio, una pensione contributiva. Ma come fanno a sottoscriverla, se non hanno raggiunto una qualità lavorativa tale che la possa permettere? Non c’è il rischio del cortocircuito, prima o poi? Che cosa possono dire questi giovani rispetto alla scelta del governo della quattordicesima, in questi giorni, a favore dei pensionati (padri e nonni)?

A domanda precisa, sul loro futuro pensionistico, i nostri giovani dimostrano di essere consapevoli di questa contraddizione. Fino a quando rimarranno in silenzio?