La legge 107 del 2015, meglio nota come “La Buona Scuola”, è stata approvata due anni fa. A due cicli scolastici di distanza è possibile fare qualche ragionamento sui contenuti che si stanno confermando più originali e su quelli che invece sono andati perdendosi velocemente nel dimenticatoio. In questo secondo gruppo rientrano le iniziative di sostegno alla formazione dei docenti (più spot che sostanza) e i principi solo teorici su trasparenza, valutazione e burocrazia. Nel primo sono da posizionarsi, invece, la massiccia campagna di assunzioni (per quanto discutibile negli esiti e nel metodo) e, soprattutto, la novità dell’alternanza scuola-lavoro. È ancora presto per valutare gli esiti degli otto decreti delegati licenziati a gennaio 2017: nei prossimi mesi particolare attenzione sarà dedicata al nuovo sistema di formazione iniziale e di accesso all’insegnamento nella scuola secondaria di I e II grado e alla revisione dei percorsi dell’istruzione professionale (i due decreti più significativi tra gli otto approvati).
È invece già evidente a tutti l’effetto dirompente che ha avuto l’obbligatorietà delle 200 ore (licei) o delle 400 ore (istituti tecnici e professionali) di alternanza scuola-lavoro da svolgersi nell’ultimo triennio di scuola secondaria. Come era ampiamente prevedibile, accanto ad alcune esperienze veramente interessanti, capaci di integrazione formazione teorica e pratica, si è assistito anche al proliferare di disordinati percorsi di tirocinio giustificati più dalla volontà di adempiere all’obbligo legislativo che dall’interesse per la formazione degli studenti. Non è questa una ragione valida per “bocciare” la novità, è ancora troppo presto per verificare se sia stato raggiunto o meno l’intento culturale della riforma: innovare i programmi scolastici e avvicinare scuola e imprese.
Nell’attesa di avere una mole di osservazioni sufficienti ad argomentare un giudizio fondato e non improvvisato è comunque già possibile suggerire correzioni “in corsa”.
Un intervento in particolare, per quanto apparentemente secondario, sarebbe capace di recuperare una dimenticanza tutta politica del legislatore nella conversione in legge dei propositi contenuti nei documenti preparatori della Buona Scuola. In questi, infatti, si richiamava esplicitamente l’originale fattispecie della «impresa didattica»; nella legge approvata, invece, si è disposto che le modalità attraverso le quali è possibile assolvere all’obbligo di alternanza sono, oltre al tradizionale tirocinio curriculare (l’alternanza scuola-lavoro genericamente intesa), il laboratorio e la «impresa formativa simulata».
Quest’ultimo dispositivo didattico, per quanto piuttosto diffuso nel nostro Paese, è altro e ben diverso strumento rispetto alla «impresa didattica», sovente anche definita «impresa formativa strumentale», «azienda speciale», «bottega scuola», «impresa formativa non simulata». Nel primo caso l’attività imprenditoriale è, appunto, simulata, quindi realistica, ma finta; nel secondo, al contrario, la formazione (fine) si realizza in assetto lavorativo reale nell’ambito di attività di produzione e vendita di beni e servizi “a mercato” (mezzo) organizzate secondo criteri economici.
Non è dato sapere cosa abbia convinto lo stesso legislatore che è riuscito a superare la tradizionale avversione verso l’alternanza scuola-lavoro a fermarsi di fronte all’inserimento nel nostro ordinamento di una possibilità così interessante come quella della impresa formativa non simulata, tra l’altro presente anche in diversi Paesi europei (si pensi alle student companies norvegesi, alle Entreprises de Formation par le travail belghe o ai Lycees Hotellerie francesi). Qualunque sia stata la motivazione allora è opportuno ridiscuterla oggi, poiché, nonostante il disinteresse del legislatore, il numero di scuole e centri di formazione professionale che coinvolgono i propri ragazzi durante le ore di lezione tecnica e di laboratorio nella produzione (con valenza didattica e formativa) di beni e servizi destinati alla vendita esterna è crescente.
Buone pratiche di questo genere, accomunate dal vincolo di riutilizzo delle (poche) risorse guadagnate nelle attività didattiche stesse e nel miglioramento di strutture e laboratori, si osservano un po’ in tutti i settori: legno, meccanica, ristorazione, hotellerie, artigianato, servizi professionali… Si tratta dell’ennesima conferma di una legge pedagogica tanto evidente quanto difficile da accettare tra la classe docente: la potenza educativa della realtà. Quella vera, non quella simulata.
@EMassagli