Con l’approssimarsi delle ferie estive, parlamentari o meno, si moltiplicano incontri audizioni, presentazioni di dossier: è un accavallarsi di proposte, controproposte spesso urlate, altre volte felpate, altre volte ancora inutili, perché sterili in quanto non produttrici di frutti. Altre volte in più strumentali, perché vanno a mettere sul tappeto tematiche il cui contenuto poi, di fatto, diviene contropartita da usare sui tavoli dedicati. È quello che sta accadendo sul discorso pensionistico che registra tutte le angolature sopra esposte, presidiate in modo più o meno adeguato dai “soliti noti” o dai soliti ignoti (alla gran parte delle platee interessate).
Bene, sul palcoscenico troviamo l’immancabile Boeri, cui stavolta va riconosciuto un chiarimento basilare tra le entrate e le uscite della componente che da migrante è diventata immigrata, ma che ha scatenato un temporale, estivo anch’esso, da parte di una buona parte del centrodestra. Vorrei chiedere cosa c’è di più lapalissiano del comprendere che la qualità delle migrazioni che stabilizzano la manodopera straniera è diversa in parte da quella italiana degli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo e similari.
È chiaro che il ritorno effettuato da chi vuole ricongiungersi alla propria famiglia nel Paese d’origine, dopo aver versato a livello previdenziale (e assistenziale) come da norme, diviene direttamente proporzionale ai risparmi accumulati, prima inviati e poi spesi altrove. E pertanto se il ricongiungimento non avviene al contrario con la famiglia che si sposta il saldo tra entrate ed uscite è lampante come lo descrive Boeri. Ma se si realizza l’ultima condizione della famiglia ricongiunta in Italia, ecco allora che questa condizione muta nel tempo, così come apre uno spazio contiguo alla problematica dello”ius soli”. Forse se si affrontasse in modo più serio l’argomento, invece di costruire polemiche su italiani pensionati all’estero che depauperano il Paese e immigrati stranieri che lo puntellano, Boeri farebbe fare un passo avanti invece che due indietro stimolando il patriottismo quasi populista di una certa parte sociopolitica nazionale.
Ma non era questo il problema che volevo segnalare, perché alle spalle di questo problema, sempre per parlare di estero dove gli aliens, come li chiamano gli americani, non sono solo gli immigrati, ma anche i migranti, si riapre il velo squarciato della mancata richiesta a Boeri di mostrare la sua classe analitica e lungimirante in una proposta di riforma del welfare per farlo passare da amalgama di previdenza e assistenza in un ben definito quadro dove – s’intenda bene – per caratteristiche, fattori e contabilità, le pensioni vere e proprie vadano distinte da tutte le altre forme assistenziali, spesso viste genericamente e generalmente come previdenziali in quanto “accompagnano” verso un percorso previdenziale, ma rendendolo possibile grazie alla fiscalità generale. Un po’ come accade per la categoria Ape, dove quella che vola volontaria di fatto è ferma agli hangar, come si era anticipato mesi fa, e dove quella sociale è decollata come decolla un aliante… Ci deve essere il bimotore che lo tira in volo.
A parte le battute e per rientrare nel campo d’interesse, il dibattito pre-estivo che apre la fase post-settembrina, il problema che resta sta diventando di tipo bizantino. Cosa chiamiamo flessibilità? La chiamiamo in entrata alla Sacconi o in uscita alla Damiano e ancor più la mettiamo sulla direttiva dei 67 o la lasciamo su quella dei 63 anni e spicci? Una cosa sembra certa, il dibattito è utile per favorire analisi e formule adeguate per le aspettative di vita, ma non può limitarsi solo a queste. Come non si può limitare alle formule della pensione di garanzia che sarà affrontata nella fase due del tavolo ed extra tavolo fra lo staff di Marco Leonardi e Giuliano Poletti e i sindacati, con i primi integrati fuori campo (ma mica tanto) e in panchina (ma niente affatto) da Tommaso Nannicini e dalla sua squadra con la brava Chiara Gribaudo, Stefano Patriarca, ecc. Li ho conosciuti personalmente (dopo una conoscenza a distanza tra stampa e social media come Twitter) andando al Lingotto (di cui forse avete letto qualcosa di simile a un reportage) come stimolo al confronto e per rispondere a una chiamata solleticante del “costruiamo insieme il futuro”, che genera il “siamo aperti alle proposte”. E devo dire che sono una bella squadra sia al tavolo che fuori, cui molto probabilmente si aggiungerà anche Michele Raitano, del quale ho trovato interessante la proposta che in fondo va a delineare aspetti in modo più chiaro di quanto conterrebbe una pensione di garanzia tout court per i giovani.
La proposta di Raitano mi piace e lo confesso, perché conferma quanto scritto in buona parte dei miei interventi su questa testata: il sistema contributivo contiene un uovo di colombo, oltre a problemi che sarebbero risolvibili se qualcuno non complicasse la vita con le stesse categorie di entomologia usate altrove. E di soluzioni ce ne sono anche con componenti di costo gestibili.
A guardare la foresta, senza dimenticare comunque gli alberi esiste un timore: quello del limite che diventa un ostacolo e che potrebbe produrre una sommatoria di problemi futuri. In modo più semplice sostengo che si debba porre mano a una “visione” di “ciclo di vita” e di soggetto socioeconomico quale la famiglia, costituita tanto dal single quanto da più esponenti e ricomporre un’analisi dove istruzione, lavoro, sanità e previdenza sviluppino le loro reti e queste reti siano costruite in modo calibrato sugli attori della storia.
Ecco allora che integrazione scuola-università-mondo del lavoro prende un posto, e il lavoro continuativo o saltuario ne copre un altro, dove assegno sociale, sostegno alla formazione all’integrazione all’inserimento, all’accompagno alla tutela, siano calibrati con la giusta flessibilità e gestiti soprattutto con regoli comuni sull’intero territorio nazionale. E ciò in un quadro dove previdenza e assistenza respirano su spazi propri senza il rischio di vicendevole soffocamento e dove la fiscalità generale giochi il suo ruolo di sostegno e di accompagno temporaneo in un quadro giuridico, fiscale ed economico diretto a stimolare iniziativa imprenditoriale, ricerca e produzione.
In poche parole non va persa la visione d’insieme, perché il rischio è quello di un patchwork che nessuno dice che non sia bello e non funzioni se è statico come una coperta, che copre qua e là, un po’ più su e un po’ più giù, ma non funziona nel tempo in questo caso perché soggetti, fattori, variabili si interrelano nel tempo in modo dinamico e sta all’esperto decifrare questo e al politico gestirlo… per il bene dei nostri figli.
E questo è un discorso che vale soprattutto in questa fase di stanca e di passaggio, di difficile gestazione verso un nuovo che non può e non deve essere peggio di quanto sia accaduto finora. Questo lo dico a tutti, e in particolare agli amici del Lingotto, senza dimenticare l’onnipresente Tito cui va riconosciuta come carina la battuta: “È difficile che gli italiani tornino a fare figli con bonus temporanei”, dimenticando che i bonus in quanto temporanei e in quanto finalizzati all’incremento del potere di acquisto sostengono per ora la crescita de Pil, Bankitalia docet. Buone vacanze.