La politica si può criticare in tanti modi, ma non si può negare che molte decisioni siano frutto di un’irrefrenabile fantasia associata spesso alla volontà gattopardesca di salvaguardare il maggior numero di interessi possibili facendo finta di varare grandi e incisivi cambiamenti. L’esempio più clamoroso risale alla fine del 2011, quando sotto il rischio dell’insolvenza dei conti pubblici italiani è stata varata una profonda riforma delle pensioni ispirata e firmata dall’allora ministro del welfare, Elsa Fornero: una riforma essenzialmente basata sull’innalzamento dell’età pensionabile e sull’introduzione più estesa del sistema di calcolo contributivo. Ebbene, nella fretta dell’approvazione, che è stata peraltro fondamentale per rasserenare il clima finanziario, ci si era dimenticati di tener conto di coloro che in base ad accordi personali o aziendali rischiavano di trovarsi nei mesi successivi privi del lavoro e della pensione. Venne coniato il brutto termine di “esodati” e giustamente venne poi varato un decreto che poneva un rimedio in maniera sostanziale al problema, garantendo il mantenimento dei requisiti pensionistici a coloro che erano stati colti in contropiede dalle nuove norme.



Aperta la porta alle eccezioni non si è stati tuttavia più capaci di chiuderla, tanto che si è arrivati a otto provvedimenti successivi che hanno allargato sempre di più le categorie “salvaguardate”, riducendo peraltro in maniera sostanziale gli effetti a breve termine di contenimento della spesa. E creando una nuova fascia di privilegiati: coloro che hanno potuto ottenere la pensione attraverso contributi pubblici che hanno sostituito i contributi volontari dopo un periodo limitato di lavoro. A sei anni da quella riforma, che aveva spostato avanti al massimo di cinque anni l’età pensionabile, non dovrebbero, in teoria, esistere più lavoratori in sospeso tra una riforma e l’altra, ma le salvaguardie per gli esodati sono diventate come la croce di cavaliere e il sigaro che non si negano a nessuno.



È questo uno dei, purtroppo tanti, esempi di come la politica si muova spesso più per rispondere agli interessi di particolari categorie di persone che per rispondere alle vere esigenze del bene collettivo. L’elenco dei falsi obiettivi potrebbe essere molto lungo. Basta scorrere il libro di Alessandra del Boca e Antonietta Mundo (“L’inganno generazionale”, ed. Gea, pagg. 176, € 16,50) per accorgersi di come le statistiche vengano spesso utilizzate in modo distorto, di come le politiche per l’occupazione affrontino i problemi dal lato sbagliato, di come le riforme possono venire svuotate dai successivi interventi tanto che la logica dell’alternanza in Italia ha voluto spesso dire disfare quello che ha fatto il governo precedente.



A proposito degli esodati si può per esempio leggere: “Se i miliardi che stiamo spendendo per le salvaguardie, molto al di là del loro scopo originario, si fossero usati per l’istruzione di ogni ordine e grado, avremmo più giovani al lavoro. Se li avessimo investiti nella ricerca scientifica molti dei nostri giovani non sarebbero andati all’estero per formare il proprio capitale umano.” Il vero problema sul fronte generazionale non sono gli anziani al lavoro che “rubano” il posto ai giovani, ma sono i costi di una previdenza in cui i casi particolari diventano la norma generale, tanto che di fatto gli italiani vanno in pensione in media a un’età molto inferiore rispetto a quella “ufficiale”.

“Conoscere per deliberare” è una delle frasi storiche di Luigi Einaudi. Un richiamo sempre più attuale di fronte a una politica fatta di slogan, di luoghi comuni, di soluzioni facili.