Correva l’estate 2007 e tutto andava bene. Il clima era buono, caldo ma non caldissimo. L’economia fluiva in una con la finanza. Si parlava di ritardi del sistema Italia perché non avevamo (avevamo?) le grandi industrie che sole sarebbero sopravvissute alla globalizzazione dei mercati. La Cina era un gigante dai piedi d’argilla, la Russia un orso tenuto alla catena dal grande business. Chi poteva pensare che di lì a poco, pochi giorni, poche settimane, tutto sarebbe crollato? Che il paradiso in terra anche stavolta avrebbe dovuto attendere e che avremmo ricevuto una mazzata mica da ridere tra capocollo, come dice Lino Banfi, anche se, in fondo in fondo, quella mazzata ce la aspettavamo?
Nessuno prevedeva nulla, basta andare a rileggere, con il sadico piacere dello storico, i commenti di allora, le previsioni dei grandi esperti, gli articoli dei quotidiani economici, finanziari e di ogni natura e genere, comprese le testate scandalistiche. Sui media era (era?) più facile trovare seni al vento che segnali della bufera che avrebbe sconvolto il mondo, sarebbe costata milioni di posti di lavoro, centinaia di vite umane distrutte e, in molti casi, spezzate dalla disperazione e dalla solitudine con cui molti furono lasciati di fronte all’imprevisto.
Certo i soliti soloni economisti a dicembre di quell’anno dissero che loro l’avevano previsto. Ma si vede che se l’erano tenuta per loro tale previsione e che tra mille suggerimenti si erano scordati di dirci che tutto andava male, che la bolla finanziaria era troppo grande. Peraltro è una loro specialità: non ne hanno mai predetta una tra le grandi crisi finanziarie, a cominciare da quella dei tulipani, nell’Olanda riformata del Seicento, per finire a quella di internet del Duemila. Ma loro sono economisti, sono esperti nell’intuire il passato, mica maghi!
Dieci anni dopo, dunque, dal 2007 al 2017 cos’è cambiato? La finanza è davvero stata riformata come si disse, si invocò, si minacciò? Cos’è diventato il mercato del lavoro? Quale fotografia ci facciamo oggi del mondo? Intanto mettiamoci l’anima in pace: i grandi mercati finanziari funzionano come prima, le banche continuano a investire risparmi (i nostri risparmi) assai più nei vari fondi e nei vari titoli a rischio che non nello sviluppo del Paese. Le Borse corrono, ansimano, si fermano, esattamente come un decennio fa. E stiamo preparando la prossima bolla: allora furono le abitazioni per tutti a prezzi stracciati, ora, con più fantasia, si parla di Industria 4.0, l’ennesimo mito per l’ennesima “pelata” ai danni del “popolo bue”, degli investitori della domenica, o del weekend.
Si parlò di tassare le transazioni, la finanza aggressiva e svincolata da ogni legame con il sistema produttivo. Si parlò di dividere le banche d’affari da quelle che raccolgono il risparmio delle famiglie e delle imprese. Non se n’è fatto nulla. E nulla si farà: perché troppa parte del sistema si regge ormai su queste bolle. Basti pensare a quanto Pil britannico proviene dalla City per capire che troppi interessi impediscono al buon senso di aver la meglio sul senso comune, direbbe il mitico don ‘Lisander!
A dire il vero però qualche novità c’è stata. E, forse non a caso, essa proviene proprio dal settore della produzione, da quel mondo sociale che, come ripete sovente Gigi Petteni, il segretario nazionale contrattualista della Cisl, “deve fare i conti con la realtà e non con le fantasie”. Il lavoro, infatti, non è scomparso sommerso dalla carta e dai bit, e siccome non è scomparso, e presumibilmente non scomparirà fino a che il paradiso, quello vero mica quello terreno, non si realizzerà, esso è stato regolato. Con contratti: ecco la crisi ha generato una serie di accordi che hanno consentito di dare coperture a chi non le aveva (si pensi al terziario cui fino al 2007 non spettavano né ammortizzatori, né altro), si sono allargati gli strumenti di tutela e di accompagnamento delle crisi aziendali, si sono inventati paracaduti di ogni natura per evitare di lasciare la gente da sola, oppure per impedire che scomparissero i posti di lavoro in attesa che la luce riapparisse in fondo al tunnel. Ci si è riusciti? In misura non diversa che nelle altre umane vicende, qualche volta sì, qualche volta no.
Dieci anni di politiche passive hanno comunque impedito che il Paese andasse alla deriva e fosse sommerso dalla disperazione. Ma la disperazione non è stata sommersa, è riaffiorata, ha colpito ricchi (meglio ex ricchi) e poveri. Ma gli uni non la conoscevano, gli altri ce l’hanno sempre avuta per compagna, e così si sono organizzati corsi per imprenditori nei quali la componente psicologica è stata decisiva: perché la vita di ogni uomo è importante e la solitudine è sempre una brutta bestia.
È dunque stato assodato, tra una riflessione sulla robotica e un libro sulla digitalizzazione futura, che il lavoro cambia ma non scompare, che diventa un’altra cosa, come sempre, ma che per tutti noi che ce l’abbiamo è una dolce condanna, per chi lo cerca è un’amara fenice, che alcuni cambiamenti sono veri, altri possono essere governati. E il futuro? Perché il passato lo lasciamo con piacere alle predizione degli economisti e dei sociologi!
Si parla di nuova contrattazione, ma, sempre per dirla con Petteni, “parlarne a slogan è come parlarne al vento”. Nel passato qualcuno non ha affrontato in modo ideologico il cambiamento che stava dentro la crisi, qualche sindacato, specie la Cisl, e qualche controparte imprenditoriale; nel contatto con la realtà, avendo una visione, costoro hanno saputo passare da un primo momento fatto di introduzione degli ammortizzatori sociali laddove questi erano stati fin lì assenti, a un secondo momento in cui ci si è battuti per ricreare il lavoro.
Ecco, la svolta, a un decennio di distanza, è qui: finalmente, dopo una vita in cui se ne parlava, si stanno affacciando, nei contratti nazionali, nelle leggi parlamentari, nei discorsi di qualche politico non obnubilato dal politically correct, le famose politiche attive per il lavoro: formazione continua, accompagnamento di chi non ha lavoro da un impiego all’altro, alternanza scuola-lavoro. Così si sono rimessi al centro della contrattazione la formazione e tutti i temi innovativi che riguardano i bisogni reali, quelli veri delle persone. Da cui l’affacciarsi vero della contrattazione di welfare: che non sono le palestre per i dipendenti delle aziende pagate con i contratti integrativi, ma piuttosto si identificano con i fondi per la non autosufficienza accantonati durante gli anni di lavoro, i fondi (chiusi) integrativi pensionistici e sanitari, le casse mutualistiche vere (e non quelle delle grandi compagnie assicurative, che somigliano piuttosto al tanto bistrattato, a parole, sistema statunitense).
Insomma, in questo decennio il mondo del lavoro, dentro le grandi difficoltà che ci sono state, non è rimasto fermo ad aspettare che tornasse un pre-2007: prima, quando la casa bruciava ha inventato soluzioni nuove, ora in questo nuovo scenario sta ricostruendo le mura, ridipingendo le persiane, sistemando il tetto. Modificata la legislazione in sostegno della contrattazione, oggi ha fornito chi la fa di strumenti nuovi e in parte ancora da scoprire. È stata rimessa al centro con serietà la questione lavoro coniugandola con la necessità di fare passi in avanti nella riflessione sul lavoro, sulla questione industriale, sulla contrattazione e sulla rappresentanza.
Dopo che la politica l’aveva espulsa dal tavolo della discussione, l’intermediazione delle parti sociali sembra insomma aver ripreso un ruolo e un’importanza: in un Paese che non sembra davvero poter fare a meno della sussidiarietà, che la respinge a parole ma la invoca nei fatti, mentre tanta politica è già in campagna elettorale c’è da augurarsi che una forte responsabilità delle parti sociali implementi questa azione. Non per ragioni di potere, ma perché è insita nella dimensione della realtà.
Questo decennio ci ha consegnato un mondo diverso e nuovo: anche quei lavoratori che al bar dicono che il sindacato è colpevole, lo dicono con un affetto diverso, con un accento nel quale è facile leggere il desiderio di un sindacato nuovo, diverso dal passato. Le grida contro il sindacato sono grida di affetto non di distacco: il sindacato non si è perso in questo decennio, ha saputo anche riformarsi, lentamente, forse, ma ha davanti a sé un altro salto: perseguire silenziosamente quel cambiamento nelle relazioni industriali e nella contrattazione in parallelo con quel mondo del lavoro che da parte sua si sta rivoluzionando.
Insomma, la crisi ha colpito e non ha lasciato nulla uguale a prima. E si vedono germi di un futuro che sta nascendo e si sta sviluppando. Come sempre il bicchiere è mezzo pieno. Prosit!