I giovani sono tornati al centro del dibattito politico, e in particolare di quello sul lavoro. Dopo un lungo periodo, che non sembra certo destinato a concludersi, nel quale quello delle pensioni sembrava il tema più importante, ci si è accorti che la flebile ripresa degli ultimi mesi ha lasciato indietro soprattutto gli under 35. Già considerare nella categoria “giovani” i minori di 35 anni è indicativo di una tendenza a prolungare la difficile fase di transizione tra scuola e lavoro, e insieme di un atteggiamento spesso troppo protettivo e giustificatorio di una generazione che, seppur poco considerata, avrebbe oggi ampissime opportunità. E infatti quando si discute di giovani e lavoro è facile che le posizioni si polarizzino tra i detrattori di milioni di giovani sdraiati, choosy e bamboccioni, che non avrebbero coraggio e volontà di mettersi in gioco, e coloro che addossano tutte le colpe a un sistema che premierebbe quelle categorie che garantiscono un più immediato ritorno in termini elettorali, come i pensionati.
In un’epoca dominata dalla complessità, e insieme dalla tentazione costante alla semplificazione dei messaggi, è chiaro che esistono elementi di verità in entrambe le posizioni, ma è chiaro anche che si tratta di una dialettica che allontana molto la possibilità di una sintesi. Il modo migliore per non occuparsi dell’emergenza dei giovani oggi è ridurre il tutto a una questione di numeri e di ricette ideali, come spesso facciamo. Certo è una soluzione più semplice, non guarda in faccia desideri, passioni e ambizioni di una generazione, ma li inscatola in una rappresentazione sociologica fatta e finita.
Uno spaccato diverso, utile per capire di cosa stiamo parlando e per immaginare soluzioni partendo dall’oggetto del dibattito e non dall’idea, emerge dalla mostra “Ognuno al suo lavoro” che verrà esposta a partire da domenica al Meeting di Rimini. La mostra è stata pensata e costruita da ragazzi che si stanno affacciando sul mercato del lavoro (quel mondo che tutti gli dipingono come lontano e inospitale) con le domande di chi ha una vita professionale davanti e un bagaglio di interessi e desideri costruiti negli anni della formazione. Emerge la centralità del lavoro come possibilità di crescita della propria personalità, come sviluppo delle competenze intese non come una vuota tecnica a servizio di qualcun altro, ma come una capacità che è un tutt’uno con la passione e l’interesse. E allora si può già individuare un primo aspetto che aiuta a valutare le proposte in campo in questo autunno nel quale si costruirà la Legge di bilancio.
Posto che un aiuto alle imprese per l’assunzione dei giovani è importante qual è la modalità migliore per farlo? Il rischio di una decontribuzione staccata da un vero investimento sulla persona è grande, soprattutto in una fase in cui le risorse delle imprese sono scarse. Giustamente un’impresa si sentirebbe “obbligata” a utilizzare il contratto a tutele crescenti poiché incentivato, e questo “obbligo” verrebbe meno alla fine della decontribuzione. A fronte quindi dell’impossibilità di rendere strutturali gli incentivi forse la forma migliore per un vero investimento a lungo termine su un giovane potrebbe essere ancora una volta l’apprendistato, tanto osannato nella teoria quanto ancora poco praticato nelle sue potenzialità.
Una decontribuzione totale per l’apprendistato, senza che questo faccia però venir meno le tutele previdenziali per i giovani, sembra essere una buona soluzione per chi si affaccia sul mondo del lavoro ed è alla ricerca di un luogo in cui maturare una professione, nel senso in cui l’abbiamo intesa. Ed è anche un investimento per le imprese che possono con l’apprendistato aiutarsi nel riallineare competenze e innovazione che, con la forte spinta tecnologica che stiamo vivendo, rischiano di allontanarsi sempre di più.
Si tratta di un’ipotesi, discutibile e da dettagliare, e in quanto tale è criticabile. Ma sarebbe interessante una discussione nel merito di quello che vogliamo per i prossimi 10 anni e per le prossime generazioni e, ancor di più, di come vogliamo affrontare la nuova rivoluzione industriale che in tanti dipingono come deleteria per il lavoro, ma che può, al contrario, rappresentare un nuovo rinascimento per la persona del lavoratore e per l’impresa.