Il tema del lavoro rappresenta uno dei nodi critici della situazione del nostro Paese. Ogni mese, dopo che l’Istat elabora gli indicatori relativi all’andamento del mercato del lavoro, i nostri politici ci ripropongono giudizi sostanzialmente predefiniti; chi sostiene che siamo sulla strada giusta e che l’occupazione sta crescendo e chi, osservando i dati negativi, ritiene che le politiche del governo non funzionano. Giudizi che si muovono indistintamente da una parte all’altra dell’area di appartenenza politica in funzione semplicemente del fatto di essere al governo o all’opposizione.
Negli ultimi 14 anni abbiamo avuto quasi tutte le possibili articolazioni o combinazioni al governo del nostro Paese: centrodestra, centrosinistra, governo dei tecnici e miscelature delle tre combinazioni. Tutti i governi che si sono succeduti hanno emanato leggi e decreti in materia di mercato del lavoro con l’obiettivo di migliorarne il funzionamento. La legge Biagi, la Fornero e il Jobs Act per citare le più rilevanti. Co’è successo? È cambiato significativamente il nostro mercato del lavoro?
Senza entrare nei dettagli dell’impatto dei singoli interventi legislativi (alcuni dei quali hanno dato, anche se parzialmente, un contributo positivo), possiamo cogliere attraverso alcuni dati le principali caratteristiche del nostro mercato del lavoro e il suo posizionamento nel contesto europeo e conseguentemente porci qualche domanda sul valore degli interventi normativi attuati e più in generale di cosa abbiamo veramente bisogno per affrontare il mercato del lavoro del prossimo futuro.
Il tasso di occupazione, che definisce il numero di persone in età lavorativa che partecipano al mercato del lavoro attivamente (di seguito il dato tra 15 e 64 anni – fonte Eurostat) mostra un andamento altalenante negli ultimi 14 anni: nel 2003 era al 56,1%, è poi salito raggiungendo il massimo del periodo osservato nel 2008 (58,6%), è quindi ridisceso toccando il minimo nel 2013 (55,5%) per poi risalire al 57,3% nel 2016. Se posizionassimo gli interventi normativi nel tempo potremmo osservare un contributo positivo alla crescita dell’indicatore solo per un breve periodo di tempo (circa un anno), poi il dato ritorna verso il basso o al più rimane per brevi periodi costante (a volte non si osserva nemmeno il contributo positivo).
Nel confronto con gli altri paesi europei, l’Italia nel 2016, dopo i diversi interventi, si posiziona al 26° posto su 28 paesi e terzultima nel sud Europa con il tasso di occupazione al 57,3 % che dista ben 9,3 punti percentuali dalla media Ue-28, pari a 66,6% (rispetto al 2003 la distanza tra Italia e media EU era di 6,5 punti percentuali). Le cose, sotto il profilo della classifica, vanno “molto meglio” per quanto concerne la disoccupazione. Infatti, il nostro Paese è tra i primi in Europa per l’alto tasso di disoccupazione: siamo il 5° paese con il tasso di disoccupazione più elevato dopo Grecia, Spagna, Croazia e Cipro. Il nostro tasso di disoccupazione nel 2016 era pari all’11,9% rispetto alla media Ue-28 dell’8,7%.
Sia per quanto riguarda la bassa partecipazione al mercato del lavoro, sia per l’alta disoccupazione, le persone che hanno maggiori difficoltà sono i giovani e le donne e a livello territoriale il sud. Nella sostanza possiamo dire che negli ultimi 14 anni i tecnicismi legislativi adottati dai diversi governi che si sono succeduti non hanno migliorato strutturalmente il nostro mercato del lavoro rendendolo adeguato alle esigenze dei nostri tempi.
I cambiamenti in atto nel mercato del lavoro e più in generale nella società riguardano diversi fattori, ma certamente uno dei più evidenti è quello relativo all’esperienza lavorativa delle persone. Si cambia posto di lavoro, si passa da un contratto a un altro, da un settore economico a un altro, da una professione a un’altra o, come è sempre più evidente cambiano, con maggiore velocità, le competenze richieste per svolgere la stessa professione. La permanenza media del lavoratore presso la stessa organizzazione si è ridotta drasticamente, e ciò ci pone di fronte ad un bivio: o ci mettiamo in condizione di gestire questa mobilità e di non farla diventare una situazione di insicurezza e di incertezza assoluta per il lavoratore o altrimenti rimaniamo fermi e incapaci di affrontare il mondo che cambia.
L’esperienza del cambiamento contraddistingue il lavoro odierno e rappresenta un punto cruciale per le persone, le imprese e le istituzioni pubbliche. Questa sfida, come i dati sopra esposti ben descrivono, non può essere affrontata solo attraverso tecnicismi che tentano di dare risposte parziali, di breve periodo e spesso molto onerose per la spesa pubblica. C’è qualcosa di molto più profondo da affrontare e che riguarda la concezione del lavoro, del suo valore per la persona, per la famiglia, il territorio in cui si vive e la società che si contribuisce a costruire e sviluppare.
Negli ultimi mesi ho avuto l’occasione di collaborare, con un gruppo di giovani ai primi anni dell’esperienza lavorativa, alla preparazione della mostra “Ognuno al suo lavoro” che sarà proposta al prossimo Meeting di Rimini. Un fiume di domande esistenziali: quando un lavoro è veramente utile a sé e agli altri? Quali sono i criteri per scegliere un lavoro? Si può accettare un lavoro che non piace? Cosa fare quando il lavoro è così oberante da non lasciare alcuno spazio per il resto? Come fare a conciliare l’essere mamma e la carriera? Quali sono i criteri per stare in un lavoro o cambiare lavoro? Che cos’è più importante tenere conto nei primi anni di lavoro: imparare, stipendio, soddisfazione?
Queste e molte altre domande sono l’evidente espressione che il problema del lavoro oggi è molto più radicale per la persona e non è riconducibile solo a un posto fisso, un contratto indeterminato o un buono stipendio. Nella preparazione della mostra non si è voluto (non ha senso) dare una risposta teorica, bensì incontrare persone che testimoniano con la propria esperienza dei tentativi di risposta. È infatti lì, nei tentativi messi in atto dalle persone, che emerge la concezione che si ha del proprio lavoro e dai quali può nascere un confronto che aiuti a identificare la strada da intraprendere per non lasciare nulla di intentato nella costruzione di un mondo del lavoro libero.
Parlare di concezione del lavoro significa andare al fondo della “personalità” che rappresenta, come richiamato anche da diversi studi internazionali (premio Nobel per l’economia Heckman), il punto principale per lo sviluppo del mercato del lavoro. Per lavorare oggi, sostiene Heckman, ci vuole un uomo dotato di una personalità completa, non uno divorato solo dall’ansia di riuscita o distaccato dalla realtà. Un uomo dotato di non cognitive skill – passione, apertura all’esperienza, stabilità emotiva, senso di responsabilità – elementi, come sostiene nei suoi studi empirici Heckman, che non sono “naturali”, ma si sviluppano attraverso un percorso educativo che inizia nei primi anni di vita e proseguono nel tempo. In questo senso l’investimento nei percorsi educativi e formativi rappresenta il fattore di maggior attenzione per politiche rivolte allo sviluppo del mercato del lavoro.