“Settembre, è tempo di migrare” penserà qualcuno rimembrando il celebre passo dannunziano alla ripresa del nuovo anno lavorativo. Anche perché, come ci ricorda la periodica rilevazione Istat, di questi tempi il lavoro non è proprio per tutti, al di là del fatto che a luglio si registri il livello più alto di occupazione (58%) dall’inizio della grande crisi e che il tasso di disoccupazione si attesti all’11,3% e al 35,4% per i giovani.
La continuità con cui vengono effettuate e diffuse queste rilevazioni rende difficile dire qualcosa di nuovo a riguardo. Tuttavia, non è mai inutile richiamare la complessità del fenomeno nel nostro Paese, in particolare dell’occupazione giovanile. Il 35% dei giovani tra i 15 e i 24 anni che cercano lavoro non lo trovano, ci dice Istat; va tuttavia considerato l’ingresso tardivo dei nostri ragazzi nel mercato del lavoro – che avviene circa a 22 anni – e gli alti tassi di lavoro sommerso. L’incidenza dei giovani disoccupati sul totale dei giovani della stessa classe di età è, in sintesi, pari al 9,5%, cioè poco meno di un giovane su 10 è disoccupato.
Visto però quanto si appresta a fare il governo – taglio secco per tre anni del cuneo fiscale per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani – val la pena di ricordare alcuni numeri resi noti in questi giorni da Confartigianato: secondo l’organizzazione, tra luglio e settembre le imprese prevedono 117.560 assunzioni di personale con titoli di studio legati all’innovazione tecnologica. Gli imprenditori sono a caccia di 32.570 diplomati in meccatronica ed energia e di 13.350 in elettronica ed elettrotecnica. Sono poi previste 34.940 assunzioni per la qualifica o il diploma professionale in meccanica, 9.840 nuovi posti per ingegneri elettronici e 8.550 per gli ingegneri industriali. Si tratta però di posizioni che fanno fatica a essere coperte.
Tra le professioni più richieste e con maggiore difficoltà di reperimento ci sono gli addetti all’installazione di macchine utensili (introvabili per il 64% delle assunzioni previste) e gli addetti alla gestione di macchinari a controllo numerico (manca all’appello il 58% del personale necessario). Ci sono poi problemi a reperire 14.990 operai nelle attività metalmeccaniche ed elettromeccaniche (pari al 43% del totale) e 14.430 tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione (39%).
Come si evince da questa rilevazione, non è che il lavoro non ci sia; spesso succede però che le posizioni restano vacanti. Al di là del fatto che solo un’azione di sistema che coinvolge imprese, scuola e università può seriamente invertire questa rotta, ciò che è discutibile sono proprio le misure che il Governo ha messo sul piatto per la prossima legge di bilancio. Il taglio del cuneo fiscale così come pensato – lo abbiamo già scritto appena è trapelata l’idea – rende vano l’istituto dell’apprendistato e con esso qualsiasi tentativo di raccordo tra formazione e lavoro. In attesa di intervenire in modo sistemico su questo punto – non lo può fare naturalmente un governo a pochi mesi dalle elezioni politiche – basterebbe oggi spendere bene i pochi soldi che si hanno a disposizione.
Venendo al dunque: giusto incentivare, tuttavia è molto importante che le imprese non assumano i giovani soltanto perché “conviene”, ma capiscano che sui giovani vanno fatti investimenti e programmi di crescita seri. Ciò può dare dei benefici alle imprese stesse in termini di innovazione di prodotto e di sviluppo di mercato. Affinché succeda, è importante quindi che la soluzione individuata non si riduca a un placement interessante per l’azienda, ma che su di essa ricada – proprio come il contratto di apprendistato prevede – un impegno formativo per il giovane. Ciò può renderlo più strutturato e competente nel lavoro e può legarlo maggiormente al luogo di lavoro. Diversamente, ancora una volta il rischio è di perdere un’occasione.
Bisogna quindi investire sulla formazione. E, a tal proposito, scopriamo (fonte Eurostat) che l’Italia si conferma tra i fanalini di coda su scala europea per investimenti in formazione: il 4% del Pil, sotto di quasi un punto percentuale rispetto alla media della Ue (4,9%) è poco più della metà di quanto investito da Danimarca (7%), Svezia (6,5%) e Belgio (6,4%). Gli stati membri spendono un totale di 716 miliardi di euro, una quota pari al 4,9% del Pil continentale e la quarta voce di spese dopo protezione sociale (19,2%), salute (7,2%) e servizi pubblici (6,2%). Peggio del nostro Paese fanno solo la Romania (3,1%) e l’Irlanda (3,7%), mentre la Germania resta su valori percentuali abbastanza simili (4,3%). Guardando ai valori assoluti, il governo tedesco investe quasi il doppio di noi, 127,4 miliardi di euro contro i nostri 65,1 miliardi. Anche la Grecia spende più dell’Italia.
Posto che, ancora una volta, il problema non è spendere ma spendere bene, la formazione è sempre di più la chiave di volta della grande trasformazione. È ora che anche noi ci allineiamo al mondo che cambia.
@sabella_thinkin