Ogni volta che l’Istat rende note le rilevazioni periodiche sull’andamento del mercato del lavoro (tassi di occupazione, disoccupazione e inattività accompagnate da tutte le relative specificazioni) sui media si consuma la solita pantomima: i conduttori dei tg si trasformano in prefiche che lamentano — come se ci fosse da vergognarsi — il fatto che gli occupati crescono soltanto nelle coorti dei lavoratori over 50, per responsabilità della riforma delle pensioni (targata Fornero) che avrebbe impedito agli italiani di accedere all’ambita pensione (si legga da ultimo l’intervista di Susanna Camusso su La Stampa). Ne deriva che, se i sindacati (e i partiti) riuscissero a manipolare le norme sull’aggancio automatico all’attesa di vita, le porte delle aziende si aprirebbero ai giovani disoccupati.
Ma come stanno davvero le cose? Leggiamo dall’ultimo rapporto Istat del 31 agosto scorso: “A luglio 2017 il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati), è pari al 35,5%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente. Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono per definizione esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perché impegnati negli studi. L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età (questo confronto corretto se lo dimenticano sempre tutti, ndr) è pari al 9,5% (cioè poco meno di un giovane su 10 è disoccupato). Tale incidenza risulta in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a giugno. Il tasso di occupazione — prosegue la Nota — cresce di 0,2 punti, mentre quello di inattività cala di 0,4 punti. Guardando alle altre classi di età, il tasso di occupazione a luglio cresce tra i 25-34enni (+0,2 punti percentuali) e gli ultracinquantenni (+0,3 punti) mentre rimane stabile tra i 35-49enni. Il tasso di disoccupazione rimane invariato tra i 25-34enni mentre cresce tra gli over 35 (+0,1 punti tra i 35-49enni, +0,3 punti tra gli ultracinquantenni). Il tasso di inattività cala in tutte le classi di età con variazioni comprese tra -0,1 punti dei 35-49enni e -0,5 punti degli over 50″.
Oddio: ma non avevano sbandierato urbi et orbi che a lavorare sono rimasti solo gli anziani? Basta avere un po’ di pazienza e continuare a leggere ciò che scrive l’Istituto di statistica.
“Al netto dell’effetto della componente demografica, l’incidenza degli occupati sulla popolazione è in crescita su base annua in tutte le classi di età (+1,7% tra i 15-34enni, +0,9% tra i 35-49enni, +1,8% tra gli ultracinquantenni). Il calo della popolazione tra 15 e 49 anni influisce in modo decisivo sulla variazione dell’occupazione nei dodici mesi in questa fascia di età, attenuando l’aumento per i 15-34enni e rendendo negativa la variazione per i 35-49enni. Al contrario la crescita della popolazione degli ultracinquantenni ne amplifica la crescita occupazionale, con un conseguente aumento del divario generazionale”.
Già, la componente demografica: ce ne eravamo dimenticati. Eppure tutto questo ambaradam si traduce in una semplice frazione, dove al numeratore stanno gli occupati e al denominatore la forza lavoro delle coorti di età considerate. Ne deriva che, lo ripetiamo con l’Istat, se cresce la popolazione degli over 50 è normale che cresca anche il numero degli occupati.
Per essere ancora più chiari ci avvaliamo del commento ai dati Istat dell’Osservatorio sul mercato del lavoro della Fondazione Anna Kuliscioff.
“Questi numeri sono influenzati in modo significativo dalla dinamica demografica — sta scritto nel documento — per cui un lavoratore che a fine giugno abbia compiuto 50 anni a luglio non viene più computato nella fascia 35-49 (e quindi quella fascia “perde” un occupato) mentre la fascia 50-64 ne “guadagna” uno. Poiché nella nostra società la distribuzione della popolazione nelle fasce di età non è uguale ma è più larga nelle fasce di età più anziane il ricambio (ingresso di nuovi soggetti nelle fasce più giovani) non è equivalente all’uscita di giovani verso le fasce più anziane. C’è quindi — ecco spiegato l’arcano, ndr — un invecchiamento degli occupati più o meno equivalente all’invecchiamento della popolazione complessiva: che le aziende assumano prevalentemente over 50 è un effetto ottico dovuto alla dinamica demografica. Del resto — prosegue la Nota — basterebbe prendersi la briga di leggere le tabelle dell’Istat fino in fondo per scoprire l’ultima (e benemerita) tabella Variazioni Tendenziali al Netto della Componente Demografica, dalla quale si desume che nella fascia 15-34 gli occupati sono aumentati di 1,7% e i disoccupati diminuiti del 3,2%, in quella 35-49, apparentemente penalizzata dai dati grezzi, gli occupati aumentano del 0,9% (anziché diminuire, come nell'”effetto ottico”, dell’1,2%) e i disoccupati calano del 2,3%, mentre nella fascia 50-64, quella “privilegiata”, l’occupazione aumenta del 1,8% contro il 3,7% e, guarda un po’, la disoccupazione aumenta del 15,4%”.
Come volevasi dimostrare.