È di qualche giorno fa una rilevazione di Eurostat che fotografa il fenomeno del lavoro autonomo nel Vecchio continente. Nel 2016, il numero degli autonomi ammonta a 30,6 milioni di persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni, rappresentando il 14% dell’occupazione totale. Una realtà che interessa principalmente gli uomini (nell’anno di riferimento sono autonomi due uomini su tre, il 67%), mentre più della metà – il 55% – ha 45 anni o più. Circa un terzo (il 35%) possiede un livello di istruzione superiore e sette su dieci (il 71%) non hanno dipendenti. La quota più alta di lavoratori autonomi – oltre la media europea – si osserva in Grecia e in Italia. Nel Paese ellenico quasi un terzo dei lavoratori è autonomo 29%, mentre lo è circa uno su cinque in Italia (21%). A seguire la Polonia con una quota di lavoratori autonomi che si attesta al 18%. All’opposto, questa tipologia di lavoratori rappresenta meno del 10% dell’occupazione totale in Danimarca (8%), Germania, Estonia, Lussemburgo e Svezia (9%). In Francia è sopra il 10%, in Spagna supera il 15%.



Per quanto riguarda il nostro Paese, il fenomeno ha certamente delle sue peculiarità e una sua complessità: non tutti gli autonomi lo sono per scelta, con la recente legge in materia di lavoro autonomo e agile (81/2017) per la prima volta il legislatore riconosce dignità, e qualche tutela, al popolo delle partite Iva. Ma, di base, se consideriamo anche che le Pmi sono l’ossatura portante della nostra economia, è piuttosto evidente quanto da noi il piccolo non diventi grande, con tutti i limiti e le virtù della questione: è noto che esportiamo tra i prodotti più innovativi del mondo e il made in Italy è riconosciuto come marchio di qualità e garanzia.



Tuttavia, la caratteristica fondamentale che accomuna le economie avanzate è, sostanzialmente, la presenza e la diffusione della grande impresa: sia in GB che in Germania, per esempio, questa è piuttosto sviluppata; non lo è altrettanto in Italia e nell’area mediterranea.

Certo, i paesi che si sono dimostrati più capaci di reagire sono quelli che più investono nel capitale umano e offrono quindi posti di lavoro di elevata qualità oltre a un’efficace sistema di protezione sociale; l’impatto negativo della recessione sull’occupazione e sui redditi è stato più contenuto nei paesi con mercati del lavoro più aperti e meno segmentati – cioè dove c’è più capacità di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro – e dove erano maggiori gli investimenti nella formazione permanente. Resta il fatto che tutti questi fattori concorrono alla crescita del sistema economico a partire dalla sua cellula fondamentale: l’impresa. Un sistema economico che permette all’impresa di crescere e di svilupparsi è un sistema che si innova e si dà una prospettiva di competitività.



Se guardiamo al nostro Paese, che oggi accarezza una concreta possibilità di ripresa, qualche problema di competitività esiste. Secondo il World Economic Forum di Ginevra, nel 2016 l’Italia ha perso una posizione, scendendo al 44esimo posto dal 43esimo del 2015. Sono circa 140 i Paesi complessivamente presi in considerazione e il podio è occupato da Svizzera, Singapore e Usa, seguiti da Olanda, Germania, Svezia, GB, Giappone, Hong Kong e Finlandia.

Sino a oggi, anche in una fase di crisi strutturale come quella recente, in Italia si è perlopiù intervenuti sulla sola regolazione del mercato, cosa che di per sé non crea lavoro. È vero che l’impresa di casa nostra qualche responsabilità ce l’ha in termini di mancata innovazione; basti pensare al fatto che non esiste un sistema di grandi imprese. Può tuttavia esistere un sistema di imprese virtuoso in un Paese dove la pressione fiscale è fuori controllo e la più alta d’Europa?

Twitter: @sabella_thinkin