L’apertura dell’anno scolastico ha riaperto la discussione sul nostro sistema formativo. Non ci riferiamo alla discussione sulla possibilità di usare o meno i telefonini o i collegamenti internet in classe. La domanda prevalente nella popolazione dei paesi europei è una questione relativa alla sicurezza. Non solo quella contro gli attentati. L’incertezza economica, l’incertezza sul futuro sommata ai sommovimenti in corso su cui incidono certamente anche le paure indotte dalle vicende terroristiche, si saldano in domanda di sicurezza. Per la scuola le sfide che pongono famiglie e studenti è di avere risposta con una scuola che funzioni e offra una preparazione utile per affrontare le sfide che il lavoro pone in questi tempi complicati.



La riforma della “buona scuola” ha magari ottenuto di sistemare complicati problemi di inquadramento dagli insegnanti, ha avviato un processo di maggiore autonomia degli istituti, ma non ha cambiato il modello scolastico prevalente. Solo l’avvio, sperimentale e limitato a pochi istituti, della settimana corta negli istituti superiori ha riaperto il tema di rivedere la durata complessiva del percorso di studi che si attua nel nostro Paese. I nostri giovani arrivano all’affaccio sul mercato del lavoro dopo almeno 13 anni di corsi scolastici e diventano 18 se proseguono con l’università. Arrivano così alla scelta lavorativa da due a tre anni dopo i coetanei degli altri paesi europei.



Intervenire su questo limite richiede di rivedere tutto l’impianto scolastico e non pare attuabile in tempi brevi, anche se sembra sempre più urgente un intervento in questo senso. Solo l’avvio del sistema duale con il rilancio dei percorsi professionalizzanti ha introdotto un’alternativa ai percorsi scolastici tradizionali per formare figure tecniche professionalizzate, anche a livello di competenze universitarie, con percorsi di durata minore e soprattutto con esperienze lavorative attuate già durante il percorso di formazione e istruzione professionale.

Il tema del rapporto scuola-lavoro resta comunque centrale. In Italia vi è bisogno di lavorare di più – aumentare il tasso di occupazione resta un target decisivo per il Paese – e studiare di più. Su quest’ultimo punto è intervenuta l’Ocse con il report annuale sull’educazione nei paesi a economia avanzata. Il perno del rapporto è concentrato sul sistema universitario e il nostro Paese registra dati preoccupanti. Solo 18 italiani su cento sono laureati e ciò ci colloca penultimi, davanti al Messico, nella classifica dei paesi a economia avanzata. Nei paesi dell’area Ocse la media è del 37%, il doppio del nostro dato.



Ma serve fare l’università? Dai dati Ocse la situazione italiana appare complicata. L’analisi fatta porta a concludere che rispetto all’investimento richiesto il ritorno economico e lavorativo non ripagano dei sacrifici fatti. Da noi l’università non darebbe prospettive lavorative e ritorni finanziari tali da invogliare ad aumentare il tasso di iscrizioni. Su ciò pesa senz’altro quanto detto prima relativamente alla durata complessiva del ciclo di studi in Italia rispetto agli altri paesi oggetto del confronto. A ciò si aggiunga che se prendessimo come confronto il numero di giovani che si iscrivono all’università, la differenza con gli altri paesi risulterebbe inferiore. Il tasso di abbandono prima di arrivare alla laurea è però molto alto e quindi il risultato finale rimane quello di un Paese a bassa scolarizzazione.

Per quanto riguarda poi l’accesso al lavoro, i laureati hanno mediamente meno prospettive rispetto ai diplomati. Il tasso di occupazione fra i diplomati è del 68% contro il 64% dei laureati. Il dato complessivo va poi analizzato nella sua composizione e da ciò emerge un ulteriore problema del confronto fra il nostro sistema universitario e quello degli altri paesi. I corsi universitari che hanno il maggiore tasso di occupazione alla conclusione degli stessi sono quelli a indirizzo scientifico, tecnico ed economico. Solo il 25% dei laureati proviene dai corsi Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) che sono i più richiesti sul mercato del lavoro. Se sommiamo a questi i laureati in corsi giuridici ed economici superiamo di poco il 50%. Il tasso di occupazione per i laureati Stem è dell’82% (85% per ingegneria). Per i corsi giuridici ed economici il tasso di occupazione è analogo (81%). Ma nel nostro Paese la gran parte degli universitari è in corsi umanistici dove il tasso di occupazione risulta più basso (74%). 

Da qui deriva la conseguenza negativa di un tasso di occupazione particolarmente basso fra i laureati nel loro complesso. Se poi analizziamo il dato per sesso, la componente femminile risulta ancora più svantaggiata. Anche nelle lauree scientifiche, giuridiche ed economiche il tasso di occupazione femminile risulta di qualche punto inferiore alla media. Il differenziale negativo è ancora più marcato nel caso delle lauree “deboli”.

Data l’autonomia già affermata nelle sedi universitarie, il rapporto Ocse suggerisce di “accompagnare le scelte di orientamento con maggiore consapevolezza sui bisogni emergenti indotti modulando tasse di iscrizione e borse di studio, con esperti in orientamenti impegnati già alle superiori, offrire possibilità di ri-orientamento durante il percorso universitario e rinforzare i legami fra corsi universitari ed economia del territorio…”. Sembra di leggere le ragioni presentate dall’università statale di Milano per sostenere la scelta di introdurre iscrizioni programmate per le materie umanistiche. Ma come è noto, i giudici del Tar non sono tenuti a leggere i rapporti Ocse prima di scrivere le loro sentenze.

Tralasciando gli aspetti di cronaca, appare centrale nel suggerimento avanzato il rilievo relativo alla rigidità dei nostri percorsi universitari. Lungo tutto il percorso scuola-lavoro vi sono “passerelle” per entrare e uscire dai percorsi scolastici, fruire di formazione e lavoro, tornare ai percorsi scolastici. Attraverso la valutazione di competenze si acquisiscono così esperienze lavorative e risultati scolastici. Il mondo universitario è rimasto pressoché impermeabile a questi percorsi. Si propone anzi di boicottare l’esperienza degli Istituti tecnici superiori che rispondono alla domanda di formazione tecnica di alto profilo professionale.

Visto il confronto con gli altri paesi e l’obiettivo di studiare di più (e meglio) sarebbe bene non moltiplicare i corsi inutili, ma creare nuovi percorsi che si affianchino all’università per aumentare il numero di laureati.