“I giovani non vogliono vivere con i sussidi. Vogliono lavorare e allargare le proprie opportunità e oggi, dopo la crisi, i governi sanno come rispondere alle loro richieste e come creare un ambiente in cui le loro speranze possano avere una possibilità di successo”. Chissà cosa può essersi chiesto un giovane italiano sentendo venerdì scorso queste parole del Presidente della Bce, Mario Draghi, in un discorso al Trinity College di Dublino. Certamente avrà pensato che l’allusione ai governi non riguardasse il nostro.
Abbiamo più volte richiamato l’attenzione sulla complessità del fenomeno giovani-lavoro e, in questa affermazione di Draghi – al di là dell’azione che attribuisce ai governi – c’è un punto importante: i sussidi che qualcuno agita (sostegno al reddito o reddito di cittadinanza) non sono la soluzione e non sono ciò di cui i giovani hanno bisogno: i giovani chiedono opportunità e lavoro di qualità.
Se riconsideriamo il fenomeno, il 35% dei giovani tra i 15 e i 24 anni che cercano lavoro non lo trovano ci dice Istat; va tuttavia tenuto conto dell’ingresso tardivo dei nostri ragazzi nel mercato del lavoro – che avviene circa a 22 anni – e degli alti tassi di lavoro sommerso, oltre al grande numero di inattivi (oltre 2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni non studiano e non lavorano). In sintesi, l’incidenza dei giovani disoccupati sul totale dei giovani della stessa classe di età è pari al 9,5%, cioè poco meno di un giovane su 10 è disoccupato.
Consideriamo anche l’ultimo report di Confartigianato sulle posizioni vacanti: secondo l’organizzazione, tra luglio e settembre le imprese prevedono 117.560 assunzioni di personale con titoli di studio legati all’innovazione tecnologica. Gli imprenditori sono a caccia di 32.570 diplomati in meccatronica ed energia e di 13.350 in elettronica ed elettrotecnica. Sono poi previste 34.940 assunzioni per la qualifica o il diploma professionale in meccanica, 9.840 nuovi posti per ingegneri elettronici e 8.550 per gli ingegneri industriali. Si tratta però di posizioni che fanno fatica a essere coperte.Tra le professioni più richieste e con maggiore difficoltà di reperimento ci sono gli addetti all’installazione di macchine utensili (introvabili per il 64% delle assunzioni previste) e gli addetti alla gestione di macchinari a controllo numerico (manca all’appello il 58% del personale necessario). Ci sono poi problemi a reperire 14.990 operai nelle attività metalmeccaniche ed elettromeccaniche (pari al 43% del totale) e 14.430 tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione (39%).
Non scordiamoci anche di quanti giovani vanno a cercare fortuna all’estero, si formano nelle nostre scuole e università e poi vanno a lavorare all’estero risultando tra l’altro – più istituti hanno rilevato il dato tra cui anche la Fondazione per la Sussidiarietà – tra i top performer (questo ci dice anche che qualcosa della nostra scuola e università ancora funziona).
Dal 2008 al 2015 (dati Centro Studi Confindustria) il 51% degli italiani che hanno spostato la residenza all’estero aveva un’età compresa tra i 15 e i 39 anni (260mila persone) è in gran parte con alto titolo di studio. E, dunque, con un altissimo costo per il paese. Fare studiare tanti giovani (calcola sempre il Centro Studi Confindustria) è costato alle famiglie e al sistema pubblico 42,8 miliardi di euro. In altri termini: sono quasi 43 miliardi di investimenti pubblici e privati in formazione (un punto di Pil) di cui beneficeranno quei paesi in cui i nostri giovani sono andati a lavorare e vivere.
Venendo al dunque: qual è il problema e cosa fare? La soluzione non sta nel rendere più appetibile, come il governo sta facendo, la loro collocazione – anche se male non fa -, ma nell’investire su percorsi virtuosi di raccordo tra formazione e lavoro, cosa che può permettere alle imprese di innovarsi accogliendo i veri portatori di innovazione – i giovani appunto – e al nostro sistema produttivo di essere più competitivo nel suo insieme. Non è solo il compito della politica, ma anche di scuola e università e delle imprese. Nonché delle famiglie, che certamente devono essere capaci di produrre meno inattivi e spaventati e più giovani coraggiosi e desiderosi di un “avvenire più grande”, per usare le parole di Joseph Ratzinger.
Twitter: @sabella_thinkin