Spunta l’ipotesi di rincarare il costo dei contratti a tempo, con l’obiettivo di incentivare le assunzioni stabili… La misura potrebbe trovare spazio in manovra, ma viene spiegato che ancora non sono state prese decisioni. Si tratterebbe di un rialzo dell’aliquota contributiva aggiuntiva (1,4%) prevista nei contratti a tempo determinato e oggi destinata alla Nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi). Così il rapporto di lavoro a termine diventerebbe meno conveniente a vantaggio di quello a tempo indeterminato”. Ecco richiamato ciò che scriveva l’Ansa alcuni giorni or sono. Immaginiamo che il motivo di questo eventuale giro di vite sui contratti a termine sia un tentativo di risposta a quanto risulta dai dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps relativo ai primi sette mesi del 2017: questa tipologia contrattuale rimane, ancor di più del solito, quella più utilizzata dalle aziende per le assunzioni. 



La belle époque dei contratti a tempo indeterminato è un capitolo chiuso – in seguito al ridimensionamento del doping degli onerosi incentivi – a meno che il Governo non sia in grado di mantenere le promesse più volte ribadite di una riduzione strutturale del costo del lavoro già nella Legge di bilancio 2018. Nel frattempo, le aziende stanno facendo ricorso al lavoro a termine che, tuttavia, continua a essere considerato un non-lavoro, tanto che si finisce per sminuire risultati importanti sull’occupazione (ritenuta “cattiva”, “figlia di un dio minore”) che solo pochi mesi or sono sembravano impossibili. Come certifica l’Inps, nei primi sette mesi del 2017, nel settore privato, si è registrato un saldo tra assunzioni e cessazioni pari a +1.073.000, superiore a quello del corrispondente periodo sia del 2016 (+825.000) che del 2015 (+930.000). 



Riportato su base annua, il saldo consente di misurare la variazione tendenziale delle posizioni di lavoro. Tale saldo – vale a dire la differenza tra assunzioni e cessazioni negli ultimi dodici mesi – a luglio 2017 risultava positivo, pari a +571.000, e in crescita continua da inizio anno. Si conferma, pertanto, il rafforzamento della fase di ripresa occupazionale. Ma è la qualità di trend che non convince i soliti commentatori che hanno in testa soltanto l’idea di un lavoro non solo stabile, ma ingessato. Il risultato, infatti, è dovuto in prevalenza alla crescita (+26% sul 2016) dei contratti a tempo determinato (+501mila, inclusi quelli stagionali) a fronte di un incremento di 18mila contratti a tempo indeterminato (-4,6% sul 2016 interamente imputabile alle assunzioni a part-time) e di 52mila contratti di apprendistato (+26%). 



Guardando ai flussi delle assunzioni i contratti a termine superano il 70%. È credibile che un loro maggior costo (oltre l’1,4% ora previsto) possa invertire una tendenza che è stata confermata anche quando, per le aziende, sono stati remunerati a peso d’oro i contratti a tempo indeterminato grazie ai bonus contributivi? Crediamo di no, perché ai sostenitori di questa linea sfugge un aspetto decisivo delle tendenze del mercato del lavoro: il fabbisogno di personale è sempre più collegato alla dinamica degli ordinativi che hanno acquistato – loro sì – una dimensione difficilmente prevedibile e pianificabile. In una parola, sono diventati flessibili. È già stato detto più volte: non si vende più ciò che si produce, ma si produce quello che si è già venduto. E allora occorre osservare la funzione che, nel processo produttivo, assumono le differenti tipologie contrattuali. 

Tra le assunzioni a tempo determinato – nota l’Inps – appare significativo l’incremento dei contratti di somministrazione (+20,4%) e ancora di più quello dei contratti di lavoro a chiamata che, con riferimento sempre all’arco temporale gennaio-luglio, sono passati da 112mila (2016) a 251mila (2017), con un incremento del 124,7%. Questo significativo aumento – come in parte anche quello dei contratti di somministrazione e dei contratti a termine – può essere posto in relazione alla necessità delle imprese di ricorrere a strumenti contrattuali sostitutivi dei voucher, cancellati dal legislatore a partire dalla metà dello scorso mese di marzo (e riattivati, dal mese di luglio, con profonde modifiche normative che li hanno resi inutili e inutilizzabili). 

Il potenziamento della somministrazione deve essere considerato in modo positivo, perché questa tipologia garantisce il lavoratore (che viene inserito nell’organizzazione aziendale dell’agenzia, dalla quale, in prospettiva, potrebbe anche essere assunto a tempo indeterminato) e le imprese utilizzatrici, che così possono far fronte a picchi produttivi, evitando di caricarsi (e di dover formare in proprio) di personale in più di cui, finita la commessa, non saprebbero come servirsi. Per effetto di questi andamenti si registra un’ulteriore compressione dell’incidenza dei contratti a tempo indeterminato sul totale delle assunzioni (24,2% nei primi sette mesi del 2017), mentre nel 2015, quando era in vigore l’esonero contributivo triennale per i contratti a tempo indeterminato, era stato raggiunto il picco del 38,8%.

Le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (ivi incluse le prosecuzioni a tempo indeterminato degli apprendisti) sono risultate 215mila, con un lieve incremento rispetto allo stesso periodo del 2016 (+0,7%). Per le cessazioni, la crescita è dovuta unicamente ai rapporti a termine (+23,2%). Le cessazioni di rapporti a tempo indeterminato risultavano in lieve flessione (-0,5%). Con riferimento ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato, il numero complessivo dei licenziamenti era pari a 340mila, in riduzione rispetto a gennaio-luglio 2016 (-4,4%); in aumento erano invece le dimissioni (+4,3%). E questo è un segno di maggiore vitalità del mercato del lavoro. Il tasso di licenziamento, calcolato sull’occupazione a tempo indeterminato, compresi gli apprendisti, è risultato per i primi sette mesi del 2017 pari al 3,1%, in lieve riduzione rispetto allo stesso periodo del 2016 (3,2%). Il maggior numero dei licenziamenti è giustificato da motivi oggettivi (economici). Probabilmente ciò dipende dal fatto che, dopo il Jobs Act, per questa tipologia di recesso la tutela è comunque di natura risarcitoria. 

Un’ultima considerazione sul rapporto di lavoro a termine. Non si dimentichi che la liberalizzazione di questi contratti (abolizione della causale e possibilità di cinque proroghe) è un provvedimento adottato nel 2014 dal Governo Renzi. Avendo incontrato il favore delle imprese, occorre evitare che essi facciano la fine dei voucher, costringendole a vere e proprie acrobazie contrattuali.