In questi giorni si parla di aumentare il costo dei contratti a tempo determinato, al fine di rendere più conveniente l’assunzione stabile del lavoratore dipendente. Nel corso degli anni abbiamo assistito a una “liberalizzazione” dei contratti (non solo il tempo indeterminato tramite il Jobs Act): il tempo determinato ha visto aumentare fino a 5 il numero di proroghe e soprattutto attraverso l’eliminazione della causale oggi un datore di lavoro che assume con questo contratto non è più tenuto a motivare le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo che lo hanno indotto a tale scelta. Le causali erano un importante strumento di tutela del lavoratore, in particolare per i casi di evidente abuso della normativa. Inoltre, al netto dello sgravio contributivo e dei casi di sostituzione, già oggi assumere un lavoratore a tempo determinato costa l’1,4% in più rispetto a un tempo indeterminato, in quanto viene versato un contributo aggiuntivo per il finanziamento dell’indennità di disoccupazione Naspi.



Detto ciò, possiamo considerare l’aumento del costo delle assunzioni a tempo determinato una scelta utile al mercato del lavoro? La risposta a mio avviso è sì, ma principalmente non per la ragione politica di favorire le assunzioni a tempo indeterminato. Aumentare il costo del tempo determinato può essere una scelta perseguibile se l’obiettivo primario è quello di migliorare le condizioni di coloro che hanno un contratto a termine. Ne consegue che il contributo aggiuntivo, l’aggravio di costo, deve in qualche modo “tornare a beneficio” dei lavoratori temporanei: in sostanza, la flessibilità deve essere pagata, deve appunto costare di più.



Per analogia possiamo prendere come riferimento il modello della somministrazione di lavoro. Il contratto tramite agenzia per il lavoro costa mediamente di più rispetto a un’assunzione diretta a tempo determinato, non solo per la quota di servizio richiesta per l’attività di intermediazione svolta, ma per la presenza di costi contributivi aggiuntivi. Questi costi aggiuntivi però, attraverso il sistema di welfare bilaterale che la contrattazione ha generato, “ritornano” ai lavoratori, sotto forma di prestazioni, servizi, agevolazioni, tutele e soprattutto formazione: rimborso del ticket sanitario, spese odontoiatriche, buono libri, abbonamento extraurbano, tutela maternità, asilo nido, infortuni, sostegno al reddito, tutela alla non autosufficienza e accesso al credito. 



La vera sfida non è portare tutti i lavoratori ad avere un contratto a tempo indeterminato, non mi sembra realistico nel 2017. Credo invece sia alla portata di uomini del lavoro responsabili porsi il problema di come, non negando una flessibilità necessaria, rendere i percorsi di lavoro temporanei meno precari e più tutelati. Questo vuol dire che il costo della flessibilità non lo paga solo una parte (tendenzialmente la più debole che sono i lavoratori), ma una quota viene posta a carico del datore di lavoro. 

La stabilità occupazione è un valore da perseguire e favorire in tutti i modi. Se un costo aggiuntivo ai contratti a tempo determinato andrà inserito, che venga utilizzato a migliorare le condizioni dei lavoratori temporanei. Credo che in attesa della stabilizzazione sia buona cosa vivere un po’ meno da precari.