Il povero Checco Zalone sarà sconcertato, ma Eurostat ha smentito l’assunto di “Quo vado”, il film in cui il comico pugliese ha scolpito il monumento al valore italico del posto fisso e della sua difesa a oltranza. Secondo l’ufficio statistico dell’Unione europea, l’Italia è infatti il Paese che registra il secondo tasso più alto di self-employed (lavoratori autonomi) in Europa: il 21 per cento degli occupati, dietro solo alla Grecia (29 per cento) e sei punti percentuali sopra una media Ue del 14 per cento. 



Il dato è sorprendente perché ribalta un luogo comune, quello dei bamboccioni che aspettano il dono dal cielo per iniziare a lavorare, o quello del Paese iperstatalizzato dove, come nel film, o si è impiegati pubblici o non si vuol lavorare.

Non è così. Al contrario, è l’iniziativa privata individuale quella che ci distingue e che ci salva. Sia per amore che per forza: del resto, l’imprevedibile primato della Grecia, lo stato europeo in crisi perenne che ha dovuto crudelmente tagliare gli organici pubblici, conferma che l’auto-impiego non è sempre né solo una scelta libera ed entusiasta ma può anche essere un forzato ripiego. Sta di fatto, però, che gli italiani, e i greci, sanno anche “far da sé”. Naturalmente dai rilievi di Bruxelles emerge anche un identikit del nuovo lavoratore autonomo che è diverso da quello di trent’anni fa: non solo idraulici o artigiani (quelli scarseggiano, purtroppo) ma designer, traduttori, creativi pubblicitari, consulenti informatici. Nuove professioni contraddistinte dalla caratteristica di poter essere svolte da soli. Magari lavorando da casa, per tenere bassi i costi generali.



La notizia è però tutt’altro che priva di conseguenze sul piano socio-economico. Perché il libero professionista, il lavoratore autonomo, cosa fa per colmare le lacune che gli derivano dal non avere un “posto fisso”, ovvero l’incostanza dei flussi finanziari e l’impossibilità di mettersi in malattia continuando a intascare lo stipendio pieno? Nei limiti del possibile, lo fa evadendo le tasse. E non a caso la categoria è quella più bersagliata dai controlli fiscali. E cos’altro fa, sempre al fine di puntellare il suo bilancio, più incostante e precario rispetto a quello di chi ha il “posto fisso”? Cerca come può di ridurre i suoi costi di previdenza e assistenza: si affida unicamente alla componente obbligatoria dei versamenti previdenziali senza affiancare ad essi il “secondo e terzo pilastro” della previdenza integrativa collettiva e individuale; e si affida unicamente all’assistenza sanitaria pubblica, senza coprirsi con alcuna polizza sanitaria. Risparmia come può, insomma, ma questo deteriora il livello della sicurezza sociale e sovraccarica di funzioni i servizi pubblici: non è un fenomeno privo di costi collettivi.



Due annotazioni, per completare il quadro: innanzitutto, l’Italia sta diventando il Paese delle start-up, grazie a una buona legge che ne facilita il varo e allo spirito d’inventiva dei giovani. Il fenomeno però è anche la nuova forma che sta assumendo la millenaria italica arte di arrangiarsi. Se vent’anni fa un giovanotto disoccupato e intraprendente si dedicava ai lavori artigianali e s’inventava idraulico, oggi inventa un’App e prova a lanciare una start-up. E poi, come spesso accade in materia statistica, sarebbe bello se Eurostat incrociasse i dati sui lavoratori autonomi con quelli del loro reddito, per capire quanti di essi sono “autonomi di necessità” e quanti “d’elezione”. Quanti, insomma, non hanno trovato di meglio da fare e quanti hanno scelto di non avere padroni. C’è una bella differenza.