Molti commentatori e addetti ai lavori si sono già espressi riguardo della decontribuzione 2.0 (nel senso che vale circa la metà di quella prevista nel 2015) contenuta nella Legge di bilancio 2018 in vigore dal primo gennaio. I recentissimi dati sull’occupazione comunicati dall’Istat sono una solida base sulla quale fondare qualche previsione di successo di questa misura: estremamente limitata, in un momento come quello attuale nel quale l’occupazione cresce soltanto trainata dai contratti a termine (che non sono decontribuiti). È una misura (legittimamente) politica: funzionale a un messaggio elettorale più che a un miglioramento dei dati del mercato del lavoro.



Sono invece molti meno gli osservatori che hanno prestato la dovuta attenzione a un altro contenuto del capitolo lavoristico della manovra, una disposizione che potrebbe avere effetti più rilevanti rispetto alle pubblicizzate misure di incentivazione economica dell’occupazione. Il riferimento è a quanto disposto dal comma 28 dell’articolo 1, che consente a tutti i lavoratori di detrarre dalle tasse il 19% delle spese sostenute per l’acquisto di abbonamenti ai servizi di trasporto pubblico locale, regionale e interregionale fino a 250 euro e aggiunge il comma d-bis) al comma 2 dell’articolo 51 del Tuir, il comma che è diventato una sorta di Testo Unico del Welfare Aziendale. La nuova disposizione permette di non considerare reddito da lavoro (e quindi comporta piena defiscalizzazione e decontribuzione) le somme erogate o rimborsate dal datore di lavoro alla generalità o a categorie di dipendenti, volontariamente o in conformità a disposizioni di contratto, di accordo o di regolamento aziendale, per l’acquisto di abbonamenti per il trasporto pubblico locale, regionale e interregionale intestati al dipendente stesso e ai familiari con redditi non superiore a 2.840,51 euro. Non è prevista alcuna soglia massima per questa misura.



Non è da sottovalutare la scelta del legislatore di ampliare ulteriormente gli spazi del welfare aziendale, anche in una legge di bilancio tutto sommato “al risparmio” e nonostante a questo capitolo fossero già stati dedicati ampi spazi nel 2016 e nel 2017. È un altro segnale della forza del welfare aziendale di cui la legge prende atto, ma della quale non è artefice. I piani di welfare aziendale crescono a ritmo incessante non perché siano stati inventati dal legislatore, né perché con la crisi economica sono diminuite le risorse per i tradizionali aumenti di stipendi, neanche (soltanto) perché è in continuo arretramento il welfare pubblico; si moltiplicano perché sta cambiando la natura stessa del rapporto di lavoro, sempre meno costruito attorno al tradizionale scambio tra ore di lavoro, presenza fisica e salario e sempre di più attorno a relazioni finalizzate al risultato, alla produttività, nelle quali secondarie sono le procedure burocratiche e gerarchiche, tanto che il dipendente non teme di chiedere all’impresa, oltre allo stipendio, anche (e sempre di più) servizi.



Il legislatore del 2016 ha intercettato questo cambiamento e ha deciso non solo di non ostacolarlo, ma addirittura di incoraggiarlo. In soli tre anni il welfare aziendale è diventata la più moderna delle leve di gestione del personale e il più innovativo capitolo dei contratti integrativi aziendali. È una dimensione con la quale dovrà fare i conti anche il prossimo Parlamento, di qualsiasi colore esso sia. Vedremo se prevarrà la solita frenesia regolatoria o un’intelligente osservazione della realtà.

@EMassagli