In un ciclo di articoli in cui si affronta il tema delle soft skills, purtroppo, arriva il momento in cui ti viene richiesto di trattare il tema più gettonato in questo campo: la leadership. Racconterò, ora, ciò che ho risposto alla responsabile di una Business School nel momento in cui mi ha proposto di tenere un corso sulla leadership: “Mi dispiace molto, ma non si può insegnare a essere dei leader, poiché trattasi di ‘qualcosa’ che si conquista sul terreno delle sfide quotidiane e non in un’aula, su indicazione di un professore”.
Se non si può insegnare l’autorevolezza, credo, inoltre, che non convenga nemmeno parlarne troppo. Infatti, i vari coach, formatori e guru che hanno deciso di operare tale scelta in questi anni, al netto delle belle parole e della pubblicità, ne hanno ricavato soltanto dei mini-sé, ovvero soggetti che non saranno mai dei leader originali, né tantomeno migliori del proprio maestro. Tali risultati dovrebbero inoltre far riflettere sul valore reale di alcuni “para-guru”. Non voglio, tuttavia, introdurre un argomento tanto complesso e spinoso, perciò torno a parlare del tema cardine di questo articolo, anche se a mio modo.
Poiché non mi è ancora capitato di leggere in nessun libro o imparare ad alcun incontro una definizione chiara di cosa significhi essere dei leader, preferisco affrontare in questo articolo ciò che, invece, non fa un leader. Come insegna la filosofia, si può conoscere per opposto.
Un leader, innanzitutto, non parla della propria leadership, perché preferisce indirizzare l’attenzione dell’interlocutore su ciò che sta costruendo piuttosto che su di sé. Di conseguenza, diffidate di libri con titoli dal seguente stile: “Essere leader oggi”, “Leader di te stesso” e ancor più di incontri in stile “Scopri il leader che c’è in te”, “I’m a boss” e via dicendo. Un leader non sfrutta, ma fornisce il buon esempio, conducendo per primo il team che guida. Come suggerisce infatti il significato del verbo inglese to lead, da cui deriva “leadership”, chi possiede questa dote si impegna maggiormente a guidare le persone verso una meta prefigurata, piuttosto che a parlare di quanto sia bravo a farlo.
A tal proposito condivido con voi un episodio capitatomi in un’azienda in cui mi sono state assegnate delle docenze: il presidente della società, prima di invitare in aula i propri top manager responsabili, ha richiesto che effettuassi un colloquio della durata di un’ora con ciascuno di essi, per conoscerli meglio.
Ho quindi incontrato in un ufficio il primo fra loro, il quale, parlando di sé, si è lanciato in un lungo e concitato sermone sulla leadership fino al momento in cui l’ho interrotto e, secco, gli ho domandato: “Ti va se faccio un test sulla tua capacità di essere un leader e poi fornisco un feedback diretto al Presidente?”. Gli ho letto in volto un sorriso beffardo, il petto gonfio e le mandibole irrigidite (un segnale di rabbia e accettazione della sfida, proprio della comunicazione non verbale) sentendomi rispondere con un sì convinto. Allora io, con un sorriso altrettanto beffardo, gli ho risposto: “Ottimo! Esci pure da questo ufficio, per favore, e accompagna qui con noi i tuoi referenti e la tua segretaria”. L’uomo, dopo essere sbiancato, ha preso a toccarsi il colletto e balbettando ha domandato: “Perché? Posso rispondere io per loro!”. Ed io: “La capacità di leadership di un uomo viene stabilita da chi ci lavora ogni giorno insieme, il suo parere per me conta in modo più che marginale”.
Sono tanti gli aneddoti di questo genere che potrei raccontare, ma preferisco non dilungarmi e aggiungere un ultimo elemento di riflessione. In un recente intervento per una multinazionale farmaceutica, in cui veniva analizzata la modalità con cui i manager dovrebbero condurre i propri collaboratori al raggiungimento degli obiettivi, ho ribadito un concetto semplice: le parole sono importanti. Di conseguenza bisognerebbe, riferendomi soprattutto alle prime linee, cessare definitivamente di utilizzare termini come leader, capo, boss e usarne uno più serio e chiaro: responsabile. Chi è responsabile? Semplice: colui che è abile a rispondere e anche colui che si assume le responsabilità di ciò che accade. Il primo, quindi, che si addossa le colpe del mancato raggiungimento di un target, il primo a rispondere dell’errore di un membro del proprio staff, il primo a impegnarsi in un nuovo progetto e, soprattutto, l’ultimo a uscire dal luogo di lavoro e abbandonare il proprio collaboratore.
Se si iniziasse a parlare meno di leadership e più di responsabilità sono certo che si riuscirebbe a distinguere meglio chi vale e chi invece è solo bravo a parole; se poi questa rivoluzione non dovesse iniziare nell’immediato, almeno ci sarebbero molti meno libri sulla leadership inutili, e quindi dannosi, in circolazione. Tutto sommato questo è comunque un risultato di cui per ora mi accontenterei.