La disoccupazione giovanile in Italia è un problema strutturale. Dal 1980 sino all’inizio della crisi degli ultimi 10 anni si attestava tra percentuali comprese tra il 20% e il 30%, nell’ultimo decennio è esplosa raggiungendo tassi del 45% e al sud superiori al 50%. La natura strutturale del problema implica che non si può agire con strumenti congiunturali e chiede un’azione profonda con un respiro di medio-lungo periodo. Questa necessità trova poi ulteriore conferma nei profondi cambiamenti che interessano il mercato del lavoro caratterizzato da mutamenti legati all’innovazione che si fanno sempre più rapidi.



Occorre dunque cominciare a porsi le domande giuste e capire quali sono gli snodi cruciali. Il primo snodo è legato ai percorsi educativi: troppo alto (anche se in diminuzione) resto il tasso di dispersione scolastica, troppo lunga la transizione tra il termine degli studi e l’inserimento nel mondo del lavoro, troppo elevato il mismatch tra le competenze richieste dalle imprese e la formazione dei giovani, troppi i giovani che vanno all’estero perché non trovano opportunità nel nostro Paese.



Il secondo snodo attiene al mercato del lavoro: continuano a latitare politiche attive strutturali e coerenti, resta eccessiva la tassazione sul lavoro, si continua ideologicamente ad associare al precariato ogni lavoro che non sia a tempo indeterminato.

Purtroppo la campagna elettorale è partita col piede sbagliato, promesse roboanti costose e inutili che penalizzano soprattutto i giovani. La prima bufala è che abolire la Legge Fornero aiuterà i giovani a trovare lavoro, mentre è vero il contrario: le risorse necessarie per abolirla verrebbero tolte alle politiche di sviluppo o peserebbero ulteriormente sul debito pubblico e cioè sulle spalle dei giovani. Altre proposte demagogiche come l’abolizione delle tasse universitarie non servono a migliorare il sistema educativo e penalizzerebbero i capaci e meritevoli, il reddito di cittadinanza vagheggiato in varie forme dalle diverse formazioni politiche sembra prefigurare lo spostamento da una repubblica fondata sul lavoro a una fondata sui consumi. Si potrebbe continuare a lungo, ma quello che conta è iniziare a svelare come la sfida di sostenere i giovani nel percorso verso il lavoro paia per ora tradita dalla maggior parte delle proposte in campo.



Tornando ai sistemi educativi vi sono alcune priorità su cui investire. Innanzitutto dobbiamo combattere la dispersione scolastica e per far questo si deve rafforzare l’alternanza scuola-lavoro, vera conquista culturale della legge sulla buona scuola, rendere strutturale la sperimentazione del sistema duale promossa dal ministero del Lavoro e il conseguente potenziamento dell’apprendistato di primo livello, rafforzare e ampliare la presenza delle Formazione professionale iniziale (I&FP) che ha dimostrato in questi anni nelle regioni in cui esiste di essere in grado di combattere la dispersione scolastica e di favorire l’inserimento lavorativo dei giovani.

Contemporaneamente è necessario generare e rendere stabile un sistema di formazione terziaria non accademica che, come dimostrano i Paesi in cui è maggiormente presente, è in grado di creare quei profili che realmente servono alle imprese e di portare i giovani verso quelle competenze da tutti invocate del nuovo paradigma dell’industria 4.0. I novemila giovani coinvolti in questo processo in Italia nel sistema degli Its rispetto agli ottocentomila della Germania sono una delle spiegazioni rilevanti del diverso tasso di disoccupazione giovanile tra i due paesi.

Questo investimento in termini di risorse può valere tra 1,5 e 2 miliardi all’anno; certo una cifra significativa, ma ben al di sotto di tante inutili proposte oggi all’ordine del giorno. Inoltre, il saldo tra persone che lavorano e contribuiscono alla fiscalità generale al posto di assistiti con redditi di cittadinanza varia sarebbe certamente positivo.

L’altra grande e per ora largamente disattesa sfida è quella di dar vita a un mercato del lavoro dinamico che superi la visione novecentesca e si apra ai nuovi paradigmi che sempre più si affermeranno nei prossimi anni. Il Jobs Act ha iniziato questo percorso dal punto di vista culturale superando alcuni totem come quello dell’articolo 18, ma al tempo stesso la grande sfida di costruire un sistema di politiche attive efficace e diffuso è ancora al palo, sia per assenza di proposte operative adeguate, sia per la confusione che si è generata dopo il referendum del 4 dicembre sulle competenze tra ministero del Lavoro e Anpal. Sempre in questa direzione serve un ripensamento degli strumenti per l’occupabilità come Garanzia Giovani e gli stessi fondi strutturali gestiti dalle Regioni.

Dal punto di vista culturale, poi, l’insistenza sul binomio lavoro a tempo indeterminato e precariato è un ulteriore retaggio della cultura del secolo scorso; si continua a ragionare come se fossimo nell’epoca fordista, mentre basterebbe guardare le serie storiche della mobilità dei lavoratori da un’azienda all’altra per capire che quel mondo non esiste più da anni e che mai tornerà. Il tema è invece quello di una giusta retribuzione e di un set di politiche che accompagni il lavoratore nel suo percorso fatto di cambiamenti e anche di periodi di inattività. Su questo aspetto pare decisiva un’innovazione che non riguarda solo le leggi, quanto piuttosto la capacità dei soggetti di rappresentanza di ripensarsi. Una contrattazione territoriale e aziendale meno vincolata da quella nazionale, una politica retributiva più legata alla produttività, una minor pressione fiscale sul lavoro con particolare attenzione a quello giovanile che rifugga da forme ondivaghe di decontribuzione che rischiano solo di generare distorsioni o successi effimeri di breve periodo, sono solo alcuni esempi di questo possibile percorso.

Si tratta di un piano ambizioso, ma allo stesso tempo semplice da attuare. Un piano che coerentemente con la natura strutturale dei problemi su cui vuole intervenire deve rifuggire da misure estemporanee e da sperimentazioni che nascono e muoiono nel giro di uno e due anni.