Il Rapporto sul mercato del lavoro “Verso una lettura integrata” – a opera di un gruppo di lavoro di rappresentanti del Ministero, dell’Istat, dell’Inps e dell’Inail e dell’Anpal – è un documento molto interessante perché espone gli andamenti e gli esiti delle politiche del lavoro adottate negli anni della crisi. Dei tanti aspetti affrontati uno in particolare è sfuggito all’attenzione del dibattito, solitamente incentrato sugli andamenti dell’occupazione alle dipendenze. Si tratta dei trend del lavoro autonomo e libero professionale sia per quanto riguarda le tipologie più tradizionali, sia quelle che si collocano nella “terra di nessuno” tra le due grandi ripartizione del lavoro.
Anche in tale comparto sono intervenute delle importanti trasformazioni in seguito a provvedimenti legislativi che hanno ridisegnato i confini del lavoro subordinato (con l’effetto di spostare decina di migliaia di lavoratori verso altre modalità di assunzione: si pensi, ad esempio, all’incremento del lavoro intermittente e/o somministrato intervenuto dopo il drastico ridimensionamento dell’uso dei voucher come forma di retribuzione); ma, pure in mancanza di nuove norme, sono stati i cambiamenti indotti dai processi economici a determinare gli attuali assetti del lavoro autonomo di antico conio. Il che è molto importante in una realtà come quella italiana in cui la componente del lavoro autonomo ha svolto una funzione di rilievo nell’assicurare determinati livelli di occupazione.
Ma le trasformazioni del lavoro autonomo hanno interessato tutto il continente, arrivando ad attestarsi su di una maggiore uniformità quantitativa e qualitativa. Fra il 2008 e il 2016 nell’Ue-28 il numero degli occupati indipendenti – stimato dalla Rilevazione sulle forze di lavoro armonizzata a livello europeo – è diminuito fortemente, registrando a fine periodo una contrazione di circa 1,4 milioni di unità (-4,0%) a fronte di un concomitante incremento dell’occupazione dipendente che ha superato i 2,5 milioni di unità (+1,4%).
La lunga fase recessiva e la successiva ripresa sono state dunque accompagnate – commenta il Rapporto sul mercato del lavoro – da una ricomposizione dell’occupazione che non ha tuttavia avuto caratteri analoghi nei singoli paesi, sebbene la riduzione degli indipendenti sia stata spesso più sostenuta proprio nei paesi (come l’Italia) dove questa tipologia di occupati aveva un’incidenza maggiore. Questa circostanza ha contribuito così a contenere, anche se solo in parte, – ecco dove sta il trend verso una maggiore uniformità – le notevoli differenze del peso del self-employment nei paesi dell’Unione, elemento questo che continua comunque a rappresentare uno dei tratti di eterogeneità più spiccata fra i mercati del lavoro comunitari.
Nel 2016, il quadro Ue-28 si presenta ancora piuttosto polarizzato: a un estremo si posizionano i paesi mediterranei e alcuni paesi dell’Europa orientale, dove l’occupazione indipendente arriva a rappresentare in taluni casi (tra i quali l’Italia) fra un quinto e un terzo degli occupati; all’altro estremo vi è un blocco di paesi dell’Europa settentrionale (tra di essi spicca la Germania) dove l’incidenza degli indipendenti non arriva al 10%. Il grosso delle differenze fra i paesi Ue-28 deriva quasi esclusivamente dalla componente meno strutturata dell’occupazione indipendente, quella senza dipendenti. In effetti i “datori di lavoro” (come li definisce esplicitamente Eurostat, ossia gli indipendenti che dichiarano all’indagine di avere dei dipendenti) rappresentano nel 2016 solo poco più di un quarto degli indipendenti (9,2 milioni su 35,4 milioni) e costituiscono un segmento il cui peso e i cui connotati strutturali sono piuttosto uniformi fra i vari paesi. Ben diverso è il caso del segmento senza dipendenti – circa 23,5 milioni di occupati stimati nell’Ue-28 – per il quale la distanza fra paesi come l’Italia e la Grecia da un lato (con incidenze intorno al 20%) e la Germania e la Danimarca dal lato opposto (intorno al 5%) è piuttosto marcata.
Fra i fattori più collegati con queste asimmetrie da sottolineare quelli legati alla composizione per età e al settore di occupazione. Meno rilevante in termini assoluti risulta essere la componente residuale dei coadiuvanti familiari (2,4 milioni di occupati in tutta l’Ue-28, poco più dell’1% del totale), un segmento in netto declino da ben prima del 2008 e che si è pressoché dimezzato in termini assoluti negli ultimi dodici anni.
La riduzione dell’occupazione indipendente presenta d’altra parte connotati molto differenziati per tipologia: da una parte sono diminuiti di circa 800 mila unità i datori di lavoro, dall’altra è cresciuto di circa 600 mila unità il segmento senza dipendenti e si sono fortemente ridotti (di 1,3 milioni) i coadiuvanti familiari. È infatti molto probabile che sotto l’effetto della recessione una parte dei datori di lavoro sia confluita proprio nel segmento senza dipendenti, il quale, infatti, è cresciuto soprattutto nel primo quadriennio della crisi, laddove si è concentrata la riduzione dei datori di lavoro e la crisi delle piccole imprese individuali.
In Italia, nel complesso, dal 2004 al 2016 si è assistito alla riduzione di oltre 800 mila posizioni lavorative indipendenti quasi tutte regolari, con una contrazione delle ore lavorate cui ha contribuito anche una riduzione delle ore pro capite di quasi 80 ore rispetto al 2007. Queste tendenze presentano alcune specificità settoriali: il 90% circa della contrazione dell’input di lavoro indipendente deriva dall’agricoltura, dalla manifattura, dalle costruzioni e dal commercio; negli altri settori dei servizi la riduzione degli indipendenti è meno evidente, e in taluni casi (come nella sanità) si assiste invece a un incremento dell’input di lavoro indipendente.
Secondo le stime della Rilevazione sulle forze di lavoro, tra il 2008 e il 2016 l’occupazione dipendente cresce dello 0,6%, mentre quella indipendente diminuisce nel complesso del 7,3% (corrispondente a 430 mila occupati in meno). La crisi – prosegue il Rapporto – ha avuto tuttavia un impatto differente sulle diverse componenti dell’occupazione indipendente rilevate dall’indagine e che fanno riferimento a un continuum in cui si va da un grado più elevato di autonomia (datori di lavoro) a gradi via via più sfumati rappresentati in sequenza dai liberi professionisti e dai lavoratori in proprio, dai collaboratori (specie se mono-committenti) e da altre figure che presentano i caratteri tipici del lavoro parasubordinato.
Se tra il 2008 e il 2016 la riduzione dei datori di lavoro e degli autonomi senza dipendenti è in termini percentuali molto simile, all’interno di questi aggregati si possono distinguere alcuni profili maggiormente penalizzati. È il caso dei collaboratori, la cui consistenza si è ridotta di circa 149 mila unità dall’inizio della crisi (quasi un terzo in meno), dei coadiuvanti familiari e dei soci di cooperativa (oltre un quinto in meno). In particolare la riduzione della consistenza dei collaboratori ha contrassegnato tutto il periodo considerato, e ciò anche a seguito – come abbiamo ricordato in precedenza – delle modifiche normative intercorse negli ultimi anni.