Dal salone dell’auto di Detroit, la scorsa settimana Sergio Marchionne ha mandato un segnale forte al mondo dell’automotive, ma anche a quello dell’industria intera. Inutile dire che il nostro Paese deve mostrare grande attenzione ai piani di Fca per via degli stabilimenti che questa mantiene in Italia, grazie a chi ha accettato nel 2010 la sfida che non solo ha fatto ripartire l’industria dell’auto in Italia (che se consideriamo l’indotto vale 500.000 posti di lavoro), ma anche il sistema delle relazioni industriali.
L’ad di Fca, in attesa del piano industriale che sarà presentato a giugno, ha annunciato il raddoppio dei volumi del marchio italo-americano in 4 anni, l’arrivo di una supercar elettrica e di un Suv col marchio Ferrari, simpaticamente ribattezzato “Fuv”. Il recente lancio di Lamborghini “Urus” ha spinto Marchionne, che sembrava rallentare sull’auto elettrica, ad accelerare in modo deciso, soprattutto coinvolgendo nel progetto il marchio Ferrari. Questo dice quanto l’auto elettrica è al centro dei piani per il futuro dell’auto.
Lo sviluppo della produzione porterà all’apertura di nuovi stabilimenti negli Stati Uniti, questo anche in virtù della pesante riforma del fisco operata da Donald Trump. Fca ha infatti annunciato un nuovo investimento di 1 miliardo nel Michigan, con altre 2.500 assunzioni, per portare l’occupazione Usa oltre i 60.000 lavoratori. Come comunicato da Fim-Cisl in questi giorni, in Italia l’occupazione è già oltre 62.200 lavoratori con un incremento di 900 unità negli ultimi 4 anni. Siamo passati da avere in Cassa integrazione il 27% della forza lavoro (bruciando 32 milioni di ore) ad avere circa il 5% dei lavoratori in contratto di solidarietà. Quattro anni fa, si producevano meno di 595.500 vetture e l’80% erano di fascia bassa. Nel 2017 se ne sono prodotte 1.043.000 (+75,3% ) e il 64% è di fascia medio alta.
Il caso di Fca in Italia dimostra che sul piano delle relazioni industriali le parti sono capaci di operazioni virtuose. Attendiamo ora che anche la nostra classe politica si svegli a dare un segnale forte e strutturale all’impresa e a chi investe proprio sul piano del fisco, cosa che costituisce la priorità della prossima legislatura. Questo è infatti il grande gap con i nostri principali competitor e rischia di indebolire la forza del manufacturing italiano che continua a resistere grazie alla qualità di eccellenza del made in Italy, nonostante la pressione fiscale e gli alti costi dell’energia (+30% rispetto alla media europea).
Grazie al cuore della nostra industria, intesa nel senso più nobile del termine (ovvero come sistema di lavoro organizzato), l’Italia resta il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Ma non per merito della politica.
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