Anche se non si conoscono ancora le liste definitive dei candidati per le elezioni politiche del 4 marzo, la campagna elettorale è già in pieno svolgimento. Molte promesse riguardano i temi economici e del lavoro. D’altro canto la situazione economica del Paese è certamente migliorata nel corso degli ultimi mesi, le previsioni sono passate dall’essere pessimiste a indicare una crescita. Ciò però non giustifica un’impostazione tutta tesa a promesse di distribuzione di risorse come se i problemi del debito pubblico fossero già superati o già sanati dalla crescita attesa.
Il governo di questa legislatura ha peraltro agito con decisione e con importanti riforme sui temi economici e del lavoro. Come in tutte le fasi di reale riforma ha prodotto fratture e alimentato nuove speranze, ma anche forti opposizioni. Nel rispetto dei vincoli della spesa pubblica ha mantenuto l’equilibrio introdotto dalla riforma pensionistica, ma ha, in due differenti momenti, sostenuto i consumi (abbassamento della tassazione volgarmente ridotta agli 80 euro) nella fase più recessiva della crisi, per poi lanciare un programma di sostegno agli investimenti con riduzioni fiscali e il programma industria 4.0. Ha sostenuto le nuove assunzioni a tempo indeterminato, e in forma rimodulata questo programma proseguirà nei prossimi anni, con misure di vantaggio fiscale per le imprese. Ciò dopo aver riformato profondamente il mercato del lavoro con i decreti attuativi del Jobs Act.
Contro l’impostazione di politica economica seguita finora vengono avanzate proposte di rilancio della spesa pubblica e di isolamento economico (dazi contro globalizzazione dei mercati) da forze populiste e anti-europee. Al centro del loro ragionamento c’è l’idea che senza i vincoli che ci siamo dati per essere protagonisti di un processo di integrazione europea, potremmo oggi godere di maggiore spazio per una politica di sviluppo autonoma. I timori del nuovo portano queste forze a indicare come futuro il ritorno a statalismi di piccoli stati, senza capire che solo con politiche espansive coordinate in ambito europeo l’Italia sarebbe schiacciata dalle dinamiche avviate dalla globalizzazione. Le tesi populiste fanno leva sulla paura del nuovo e sulle difficoltà economiche ancora diffuse, ma non offrono soluzioni reali.
Sui temi del lavoro lo scontro è ancora più netto in quanto lo si ritiene un argomento che può ancora essere vista come scelta nazionale con poche implicazioni dovute ai legami europei. Qualora si volesse approfondire il tema basterebbe rivolgersi alla letteratura economica dell’ultimo periodo relativa alla teoria dello sviluppo. Appare chiaro così che, a fronte di scelte comuni sulle principali variabili economiche, a determinare un tasso di sviluppo diverso fra i paesi sviluppati è la presenza di un mercato del lavoro efficiente abbinato a un crescente investimento sul capitale umano.
Ciò richiede che i singoli paesi comprendano i cambiamenti in atto nella loro struttura produttiva e siano in grado di accompagnare con riforme adeguate i mutamenti in corso nel mercato del lavoro. Chi propone di partire dall’abolizione del Jobs Act, di prevedere un salario sociale per tutti, di tornare ad abbassare indiscriminatamente l’età pensionabile, non commette solo un errore perché la situazione economica non permette la copertura dei costi di tali promesse, ma non ha compreso il cambiamento strutturale che è avvenuto.
Le nuove tecnologie che hanno permesso di aprire una nuova fase per cui prodotti e servizi possono essere sempre più personalizzati e realizzati in tempi ridotti, che permettono di creare innovazione in tempi ristretti, hanno portato a definire percorsi professionali sempre più spezzettati e che richiedono continui investimenti di formazione e aggiornamento professionale. Da un lavoro a vita a una vita di lavori, si è detto. Chi ha a cuore i diritti e le tutele dei lavori e dei lavoratori deve partire dal comprendere questi cambiamenti e come da ciò derivi il fatto che il sistema di diritti e tutele precedenti siano da riformare perché non funzionano più. Non perché fossero sbagliati, ma perché non consentono più di garantire ai lavoratori, nelle nuove realtà produttive, quei diritti e quelle tutele per cui erano nati.
Se la durata media di vita di un’impresa iscritta alla Camera di Commercio di Milano è oggi di 10 anni, la tutela del lavoro passa per servizi al lavoro e sistemi di sostegno al reddito e alla formazione che aiutino a passare da lavoro a lavoro. I vecchi sistemi di ammortizzatori sociali che erano pensati per la sopravvivenza e il rilancio dell’impresa non otterrebbero più il risultato di essere garanti di sostenere l’occupazione, ma diventerebbero solo sostegno al reddito senza garantire il lavoro.
Identico è il tema quando si commentano i risultati occupazionali raggiunti. Molti commenti sono costretti ad ammettere che l’occupazione è cresciuta, ma si sottolinea che sono aumentati i contratti a tempo determinato e i part-time. Se il lavoro diventerà sempre più flessibile sono destinati a crescere ancora. Tanto è vero che i dati del nostro Paese indicano che siamo ancora alcuni punti sotto i livelli dei partner europei più sviluppati. Richiedono nuove forme di tutela sia economica che nei diritti dei lavoratori, ma è un’illusione che sia possibile solo se divengono tutti contratti a tempo indeterminato.
La sinistra-sinistra che propone il ritorno indietro per garantire di più i lavoratori dovrebbe guardare invece dove esercita un ruolo di governo nelle Regioni. Dove i sinistri sono al governo si producono leggi che facilitano l’uso dei contratti di stage e tirocinio per impieghi anche reiterati per più anni e per più missioni anche per il singolo lavoratore. Questi non sono contratti di lavoro, non hanno tutele né diritti e a parità di funzione lavorativa sono fortemente sotto pagati. Utili in fase di passaggio scuola-lavoro, ma non varrebbe la pena di pensare a reali tutele e diritti con nuovi contratti di lavoro flessibili per tutti gli altri casi?