Dotato di sette vite come i gatti (così si spiega la conversione animalista), Silvio Berlusconi è uno dei principali protagonisti di questa campagna elettorale, sgangherata, demagogica e offensiva per l’intelligenza dei cittadini chiamati alle urne ai quali si crede di poter raccontare che gli asini volano. Lo schieramento di centrodestra sembra avviato a vincere le elezioni e, comunque vada, a essere il solo in grado di contrastare le “resistibile ascesa” del M5S. Se l’ex Cav, in altre occasioni, è riuscito a dettare l’agenda sulla quale hanno dovuto misurarsi anche gli altri partiti, questa volta fatica a gestire una contraddizione interna alla coalizione, con Matteo Salvini in particolare (il quale ne inventa una al giorno: l’ultima è il ripristino dei dazi per difendere il made in Italy). 



Berlusconi ricorda la condizione di un barone del XIX secolo costretto a nascondere un matrimonio morganatico (e plebeo) che, invece, è noto a tutti. Sta giocando la sua partita sull’ambiguità. Si sforza di rappresentare una coalizione ragionevole e moderata quando lo chiamano a frequentare i salotti buoni, ma è costretto ad accettare i diktat di Salvini che gli ricorda gli anatemi concordati nel programma. 



Ecco, allora, Berlusconi “dalla cintola in su”: europeista nell’incontro con Juncker e i vertici del Ppe, sostenitore dell’equilibrio dei conti della previdenza nell’intervista a Il Sole 24 Ore, difensore dell’euro ma inventore di un’assurda moneta a uso interno; nello stesso tempo, “azzeratore” della legge Fornero che dovrebbe essere sostituita da una nuova riforma “economicamente e socialmente sostenibile”. Come se fosse possibile una sostenibilità che non si misura con i trend demografici e occupazionali e con tutti i parametri che condizionano la stabilità (o meglio un’instabilità accettabile) di un sistema pensionistico. 



In sostanza, l’ex premier si affida al giudizio – che i partner danno di lui – al punto da farsene una vera e propria prerogativa, quasi un diritto: essere un personaggio autorizzato a non dire la verità, una sorta di miles gloriosus della commedia classica, che non dissimula la sua identità, ma per primo fa capire ai suoi interlocutori che non devono prenderlo sul serio. Riesce a essere onesto anche dicendo bugie. I suoi “voli pindarici” tra il populismo e il rigore vengono tollerati perché dovrebbero servire a domare gli ardori del bellicoso alleato, come Berlusconi promette di fare. Ad 81 anni suonati diventano, però, molto difficili i giochi di destrezza come far volare più birilli sopra la testa, a lungo, evitando di farli cadere. 

In attesa di capire quale sarebbe il destino della riforma Fornero nel caso di una vittoria del centrodestra (ammesso e non concesso che sia idonea a garantire una maggioranza e un governo) passiamo in rassegna agli altri programmi elettorali. Il M5S si qualifica, a modo suo, come un partito “di lotta e di governo”. E visto che sono passati cinquant’anni dal ’68, ne ha assunto uno slogan: “La fantasia al potere”. Ovviamente non quella creativa degli artisti, ma quella dei visionari; di chi scambia lucciole per lanterne. Meno tasse, più spese, senza timore di essere loro stessi a indicare i costi degli interventi proposti snocciolando miliardi come se si trovassero nel Campo dei Miracoli dove precederanno il Gatto e la Volpe a dissotterrare il “tesoretto” nascosto da Pinocchio. Ma l’aspetto più paradossale è un altro: se nel prossimo Parlamento si dovesse dar vita ad una maggioranza sulla base dell’omogeneità dei programmi, quello del centrodestra e quello dei “grillini” sembrano fatti della medesima pasta. Sono comunque i carnet che si somigliano di più. 

Quanto a Liberi e Uguali, il colore dominante non è (come ci si poteva aspettare) il rosso, ma il verde. La via d’uscita si chiama Green economy, a cui è affidata la riconversione dell’apparato produttivo e dell’occupazione. Che dire? Si torna indietro anche con le “fughe in avanti”. Il tratto più caratteristico sta nella proposta – in tempi di flat tax – di accelerare la progressività delle aliquote fiscali a danno dei redditi più alti. 

Non c’è dubbio, il programma più serio è quello del Pd, soprattutto dopo le apprezzabili affermazioni di Paolo Gentiloni nel suo discorso alla Luiss: “Non è tempo di scardinare i pilastri del nostro sistema, da quello pensionistico, a quello fiscale. Non è il tempo delle cicale è il tempo della competenza, della serietà e dell’investimento sul futuro”.  Giustamente – come principale partito di governo nel corso della XVI legislatura – il Pd non si rimangia le politiche attuate; anzi, le difende contro attacchi ingiusti e ingiustificati (gli avversari sanno parlare solo di abolizioni: dalla “buona scuola” alla legge Fornero). Ma un programma che si limita a rievocare il passato, senza fornire indicazioni nuove per il futuro, dà purtroppo l’idea di un testamento.