Non vorrei essere irriverente, ma credo sia giusto tornare a parlare di lavoro, non nel senso di professione, ma come diritto e dovere a una responsabilità che è insieme personale e sociale. Come, del resto, troviamo nel primo articolo della nostra Costituzione. Ed è in rapporto a questa comune responsabilità che dovrebbe essere ridisegnata anzitutto la formazione, non per rendere meramente funzionale la cultura, ma per dare sostanza alla domanda di speranza e di futuro che i nostri giovani e le loro famiglie coltivano a tutto tondo, nonostante il contesto di dominante immobilismo sociale e istituzionale.



Quando leggo, ad esempio, lo storico degli ultimi anni relativo ai Neet e alla disoccupazione giovanile, incrociandolo con gli ultimi dati Ocse, non possiamo non condividere una sana preoccupazione, che vada al di là degli stereotipi e sappia incontrare le domande di senso, di speranza, di futuro che leggiamo ogni giorno, anzitutto nelle giovani generazioni. E il tema del lavoro, appunto, è uno dei crocevia di queste domande.



Che cosa posso dire, ad esempio, ai ragazzi delle classi quinte che stanno in questi mesi, un po’ alla volta, maturando la scelta universitaria? Che devono pensare alla scelta seguendo talento e attitudini da un lato, ma anche, dall’altro, un occhio vigile al mondo del lavoro. In poche parole, l’occupabilità di un titolo di studio. Se, come dicono le ricerche, su dieci laureati in quattro, alla fin fine, finiscono per rimanere disoccupati o sottoccupati, l’attenzione deve essere, appunto, massima. Perché, quando si sceglie, si deve essere consapevoli di cosa si sceglie, comprese le conseguenze.



Quanti nostri giovani, tanto per capirci, escono da percorsi con alte specializzazioni, ma senza avere un corrispettivo occupazionale in grado di assorbirle? E non si pensi più al mondo della scuola come al primo strumento occupazionale, visto l’avanzante calo demografico della popolazione scolastica. È accettabile, ad esempio, che si consideri la via straniera (la cosiddetta “fuga dei cervelli”) come opzione oramai privilegiata dalle giovani generazioni?

La recente ricerca dedicata a “Quale laurea dà maggiori opportunità occupazionali? L’analisi dei laureati trentenni in Italia”, realizzata dall’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, non lascia dubbi. Cosa dice questa ricerca? I giovani trentenni, cioè dai 30 ai 39 anni, si trovano in questa situazione: i laureati italiani di questa fascia di età sono 1,7 milioni, ma ben il 19,5%, cioè 334.000, si trova senza un’occupazione, e un altrettanto 19%, cioè 336.000, è riuscito ad agguantare un contratto di lavoro non vincolato a una laurea. Solo il 61,5%, quindi, è riuscito a sottoscrivere un contratto di lavoro stabile in linea col proprio percorso di studio.

Veniamo ora al livello di occupabilità delle diverse lauree. Nella fascia dei trentenni l’incremento maggiore di laureati lo troviamo in medicina (+55.000), lauree economiche (+21.000), nelle scienze sociali (+19.000) e in psicologia (+15.000). Ma sappiamo bene che questo aumento non è conseguenza diretta della maggiore richiesta del mercato del lavoro. Se, come si è detto, l’occupazione media dei laureati è pari all’81,3%, sappiamo poi che c’è una notevole variabilità dell’occupazione rispetto al percorso di laurea.

Alcuni esempi. I laureati in statistica praticamente trovano tutti una stabile occupazione (96,3%), mentre i laureati di lingue risultati stabilmente occupati sono solo tre su quattro (73,2%). Di questo 73,2%, solo il 44% nei fatti può dire di svolgere una professione conseguente al proprio percorso di studio. I laureati in giurisprudenza, invece, hanno segnato, per i trentenni, una vera inversione di tendenza, con un progressivo calo di laureati ma anche di occupati. Se sono diminuite le lauree forensi, sono aumentati, nonostante i pochi posti ammessi nei test rispetto alle necessità, i laureati in medicina (+34%), mentre stabile resta il quadro occupazionale complessivo. Un aumento comunque assorbito dai vari settori sanitari. E per le lauree umanistiche? Sono 287.000 i laureati di lettere, storia, filosofia. Il 25% di loro, cioè 71.000, non lavora, mentre svolge la professione in linea con la propria laurea solo il 55,6%.

Infine, un ultimo dato sugli stipendi. Un laureato mediamente guadagna 1.632 euro, cioè il 30% in più di un coetaneo con la sola licenza media (1.139 euro) e un 20% in più di un diplomato (1.299 euro). Se poi andiamo nel dettaglio, vediamo che un ingegnere mediamente guadagna 1.850 euro, un medico 1.869 euro, cioè 550 in più rispetto a un laureato in psicologia, per il quale la differenza con un diplomato è minima, di soli 52 euro.

Resta la domanda decisiva, quella che ha accompagnato, al momento della scelta di studio e universitaria, i nostri giovani: la passione, le attitudini, la sensibilità, la disponibilità a mettersi in gioco. Credo siano valori e fattori difficilmente valutabili in termini remunerativi, nonostante a livello di reputazione e di riconoscimento sociale non valgano il primo posto.