La legge n° 96 del 2018 (il cosiddetto Decreto dignità) è entrata in vigore da quasi due mesi e i primi effetti sono già sotto gli occhi di tutti. L’eliminazione del precariato non è al momento un risultato conseguito, anzi, assistiamo a un forte incremento del turnover, dovuto ai vincoli introdotti sulla reiterazione dei contratti a termine (tempo determinato e somministrazione), ma soprattutto a causa di una incertezza circa l’applicazione di diversi aspetti normativi della legge.



Prendiamo solo l’esempio delle casuali. Dopo 12 mesi o comunque dopo il primo rinnovo del contratto, al rapporto di lavoro dovrà essere apposta una causale, che, salvo gli eventi sostitutivi e le attività stagionali (esenti da causale), sono di difficile identificazione. Proviamo a fare un esercizio concreto: una possibile causale deve essere collegata a “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”. Riuscire a identificare oggettivamente, nel mercato del lavoro odierno, un incremento dell’attività temporaneo e allo stesso tempo significativo e non programmabile, risulta molto complicato.



In cosa consiste la “non programmabilità” dell’esigenza? Per esempio, le aziende che partecipano a dei bandi di fornitura temporanei non possono assumere a tempo determinato, perché l’attività oggetto del contratto è stata programmata, in quanto l’azienda era profondamente consapevole di presentare un’offerta. Quindi dovrebbe assumere dei lavoratori a tempo indeterminato per un’attività temporanea. Ma ovviamente non verrà fatto mai. Questo è un semplice esempio di come la volontà del legislatore non trova corrispondenza nelle dinamiche della realtà.

Sicuramente, una percentuale minoritaria di contratti verrà stabilizzata, ma non è detto che non si tratti di rapporti di lavoro che comunque avrebbero raggiunto un loro consolidamento. Assistiamo invece a un’esplosione del turnover tra i lavoratori, con conseguenze negative per entrambe le parti: riduzione della durata dei contratti per i lavoratori e dispersione delle professionalità per le aziende. Oltre a questi due fenomeni in atto, potremmo vedere anche una terza dinamica, purtroppo non auspicabile, data dal combinato tra le misure restrittive sui contratti a termine, la flat tax sul lavoro autonomo e il mancato contrasto alle vere forme precarizzanti il mercato del lavoro italiano, come finte partite Iva, l’abuso dei tirocini, le cooperative spurie, ecc.



Sulla prima misura, ovvero l’irrigidimento dei contratti a termine, credo che la situazione sia ormai chiara: non è più possibile fare contratti a termine per più di 12 mesi senza causale, quindi le ipotesi possono essere: a) assumere a tempo indeterminato il lavoratore; b) proseguire a tempo determinato indicando una causale che potrebbe essere tranquillamente impugnata davanti a un giudice; c) turnover; d) cambiare tipologia contrattuale al lavoratore. Se prima della bozza del Documento di economia e finanza presentata dal Governo potevamo appunto propendere tra l’ipotesi di stabilizzazione o turnover (escludendo che qualche imprenditore desideri il martirio giudiziario sull’altare delle causali), adesso prende piede l’ipotesi che le aziende dirottino i propri lavoratori verso l’apertura di partita Iva, quindi verso il lavoro autonomo. Mi spiego. Avendo posto dei limiti alla prosecuzione dei rapporti di lavoro a tempo determinato e somministrazione (comunque le forme flessibili più tutelate normativamente e contrattualmente del nostro ordinamento, sia dal punto di vista retributivo, contributivo, welfare, ecc.) e non avendo al contempo contingentato l’utilizzo della partita Iva a quelle attività realmente indipendenti, la previsione della flat tax con una tassazione di vantaggio al 15% sul lavoro autonomo avrà come esito l’aumento delle partite Iva individuali.

Il rischio che si intravede è quello di favorire comportamenti fraudolenti, ovvero quello di “invitare” lavoratori prima subordinati ad aprire la partita Iva, per continuare a svolgere la medesima attività attraverso un rapporto di lavoro autonomo. Il tutto ovviamente con un abbassamento di tutele per il lavoratore, con la sola contropartita di avere una retribuzione non inferiore, o leggermente superiore, come risultante di una tassazione di vantaggio prevista con la flat tax. Un possibile esito non sarà l’eliminazione del precariato, ma la chiusura di rapporti di lavoro subordinati a termine e l’apertura di partite Iva che offrono un livello di garanzie complessivamente inferiori al lavoratore.

Ovviamente l’auspicio è quello che possano invece incrementare le assunzioni stabili e le trasformazioni verso il contratto a tempo indeterminato, ma solo i dati dei prossimi mesi ci confermeranno le tendenze occupazionali. Le parti sociali attraverso la contrattazione hanno la responsabilità non solo di indicare la strada verso comportamenti virtuosi e contrastare l’applicazione di forme contrattuali improprie, ma anche di esplorare nuove terre di negoziazione anche per il lavoro parasubordinato e autonomo, al fine di incrementare tutele e servizi così da evitare fenomeni di dumping. La strada non è semplice, ma qualcuno ha il dovere di provarci.

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