Quando nel 2009 Sergio Marchionne si trovò davanti l’occasione che cambiò la vita a lui e a Fiat, per Chrysler il problema era la qualità; per Fiat – dopo il primo quinquennio a guida del manager italo-canadese – il problema era l’economia di scala. Il Consumer Report – importante rivista americana del settore – scriveva che i prodotti Chrysler erano “inefficienti da un punto di vista economico, rumorosi e scomodi”. Il Wall Street Journal parlava di “scarsa guidabilità e pessime finiture”. A Chrysler interessava la qualità di Fiat, a Fiat interessava la rete di vendita di Chrylser. Su questi presupposti nacque la joint venture Fiat Chrysler che portò, nel giro di 4 anni, alla fusione delle due case automobilistiche. Fu il capolavoro di Marchionne e ciò che agli Agnelli non era mai riuscito.



Marchionne, che prima di Fiat non si era mai occupato di auto, aveva chiaro che il cuore dell’incontro tra le due industrie, era la tecnologia di Fiat, notevolmente cresciuta durante la sua gestione e, in particolare, in quella dei motori Magneti Marelli, cosa che per Chrysler volle dire un riposizionamento di mercato negli Usa con nuovi prodotti a basso consumo.



L’irrompere della congiuntura aveva messo in grande difficoltà le Big Three e la loro stessa sopravvivenza: GM, Ford e Chrysler, duramente colpite dalla crisi finanziaria e dal forte aumento del prezzo della benzina, vedevano crollare le loro vendite. Nel novembre del 2009, le Big Three chiesero aiuto all’Amministrazione Obama, neoeletto Presidente degli Stati Uniti d’America. Ma fu George Bush – in carica fino al 31 dicembre – ad autorizzare il prestito di denaro (17,4 miliardi di dollari) che diede a GM e a Chrysler la possibilità di salvarsi. Delle Big Three, la Chrysler era quella messa peggio perché negli ultimi anni si era concentrata sulla produzione di veicoli di grandi dimensioni dalla bassa efficienza sotto il profilo dei consumi.



Era il 20 gennaio del 2009, quando Fiat e Chrysler diffondevano un comunicato congiunto in cui annunciavano la loro alleanza strategica globale. Fiat rilevava il 35% del colosso americano: una quota iniziale del 20% e un ulteriore 15% al raggiungimento di tre specifici obiettivi di performance, il cui primo era la produzione di un motore più efficiente. Chrysler accedeva alle piattaforme di Fiat che si impegnava anche a supportare Chrysler nella distribuzione in quei mercati in cui Fiat era presente, in particolare Sudamerica e Europa.

Fiat riusciva così ad acquistare la sua prima quota di Chrysler senza esborsi monetari, proprio perché possedeva quel know how – leggasi Magneti Marelli – per produrre automobili e motori efficienti e di piccole dimensioni che Chrysler non aveva. Il resto è storia nota, il successo della joint venture porta il 1 gennaio 2014 al grande annuncio: nasce FCA, Fiat Chrysler Automobiles. Obama e Bob King – leader del sindacato americano dell’auto – ringraziano Marchionne per aver salvato Chrysler. Non val la pena di ricordare, in questa sede, come in Italia sia stata invece vissuta la vicenda.

È passato quasi un decennio: Sergio Marchionne ci ha lasciato e oggi Magneti Marelli sta per passare a Calsonic Kansei, società giapponese controllata dal fondo americano KKR. Si parla di un’operazione che prevede il passaggio di proprietà di buona parte degli asset di Magneti Marelli per un valore di circa 5,5 miliardi di euro. La vendita dell’azienda, la cui cessione potrebbe essere avallata dal nuovo ad di FCA Mike Manley, era già stata valutata anni fa. Ma era stata bloccata proprio da Marchionne: Lucky Sergio non voleva perdere Magneti Marelli, perché aveva chiaro che con quei motori ci aveva fatto la rivoluzione.

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