L’intervento posto in essere dal Governo, per quanto concerne, nello specifico, la profonda rilettura del contratto a termine, rappresenta un momento di chiara rottura con il trend degli ultimi anni, delineando una sorta di ritorno al passato, sulla base di un presupposto ormai superato, ovvero che il contratto a tempo determinato sia sinonimo di precariato, mentre il contratto a tempo indeterminato rappresenti un più stabile vincolo, per sempre. Si tratta di una visione ormai statica in contrapposizione a un mercato del lavoro sempre più dinamico. Per tale ragione, il Decreto dignità, seppur con obiettivo condivisibile, appare del tutto disallineato dallo scenario economico nel quale si è collocato e fa presagire la realizzazione di un risultato opposto rispetto a quello sperato.



I primi effetti, nel breve periodo ormai trascorso dall’entrata in vigore del Decreto dignità, si leggono soprattutto nelle reazioni a caldo dei datori di lavoro, ma non solo. L’irrigidimento del ricorso alla forma contrattuale del contratto a termine non ha certo lasciato indifferenti gli imprenditori che sin da subito hanno vagliato le alternative per far fronte alle esigenze organizzative dell’impresa, considerando quale primaria via d’uscita il turnover, ovvero la sostituzione dei lavoratori per aggirare i vari limiti introdotti dal Decreto dignità. L’intervento, di fatto, nel limitare e inasprire la disciplina del contratto a tempo determinato non ha automaticamente favorito la forma contrattuale a tempo indeterminato. 



Tale circostanza è, peraltro, confermata dai numeri riportati dall’Istat, riferiti a luglio, primo mese di parziale applicazione delle nuove norme: i contratti a tempo determinato in un mese sono cresciuti di sole 8mila unità, ovvero la metà dell’aumento registrato nel mese di giugno, +16mila unità. Si tratta di numeri piccoli che delineano già uno scenario ostile, di reazione immediata degli imprenditori italiani agli annunci del Governo ed, in particolare, alle norme del decreto. Come detto, a fronte di tale diminuzione, tuttavia, non si è configurato l’effetto sperato, anzi, al contrario, il ricorso al contratto a tempo indeterminato ha subito, nel solo mese di luglio, un calo di 44mila unità.



Altro dato rilevante, in tale analisi, è quello che, solo apparentemente, sembrerebbe andare nel verso opposto: la disoccupazione è in calo, ma tale flessione non è dettata dalla stabilizzazione delle assunzioni, quanto più dalla flessione registrata dal numero di persone in cerca di occupazione. È un segno evidente, questo, di come la domanda di lavoro risenta dell’intervento normativo. Si tratta di una sorta di cortocircuito del sistema: alla considerazione degli interessi del lavoratore, nello specifico la stabilizzazione dello stesso nel mercato del lavoro, si deve affiancare la considerazione di quelli imprenditoriali e dell’azienda. In mancanza di una valutazione in tal senso, del binomio di interessi coinvolti, la conseguenza è un fatale fallimento, o una mancata realizzazione, degli obiettivi della riforma. 

Nel caso del Decreto dignità, come emerge dai primi dati Istat, si è delineato uno scenario che vede una mancata realizzazione dell’obiettivo – almeno per il momento – non solo per il ricorso dei datori di lavoro a opzioni alternative, in particolare il turnover, ma anche da parte dei lavoratori, scoraggiati nella ricerca dell’impiego. L’irrigidimento del mercato del lavoro, quindi, ha sortito, in questa primissima fase, degli effetti negativi sia per la domanda di lavoro, sia per l’offerta. 

Sembrerebbe che l’obiettivo posto alla base della manovra di certo non abbia trovato il mezzo più idoneo per essere realizzato, creando piuttosto un effetto boomerang che purtroppo potrebbe portare a delle conseguenze aspre nei prossimi mesi.

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