Dal 1° novembre si è aggiunto un nuovo capitolo nell’attuazione del Decreto Dignità del luglio scorso, cioè il “restringimento” per oltre 500 mila lavoratori e aziende che da metà luglio hanno potuto usufruire di un periodo transitorio sulle regole delle assunzioni a tempo determinato. La scadenza del 31 ottobre di questa “pausa di riflessione” riguarda soprattutto i giovani diplomati e residenti al Nord: il 18% del totale di 2,9 milioni di dipendenti a tempo determinato. Ma qual è il bilancio dell’effetto complessivo sul mondo del lavoro di questi primi 4 mesi di entrata in vigore del Decreto?



L’obiettivo del Ministro Di Maio con questo provvedimento è contrastare il precariato, ma dall’entrata in vigore, per esempio, nella sola città metropolitana di Milano, secondo le stime, sono 6 mila i contratti a termine tagliati. Secondo poi i dati della Cisl, solo il 30% dei precari viene stabilizzato (in molti casi passando attraverso le Agenzie di lavoro interinale). Daniel Zanda della Felsa-Cisl ha sottolineato di recente come «tale situazione appare drammatica: il 70% dei precari, subisce il turnover, vengono lasciati a casa e sostituiti con altri precari, soprattutto in aziende private, ma anche in società partecipate da enti pubblici. Il turnover colpisce maggiormente il personale meno qualificato e più facilmente sostituibile». Questo tragico panorama, previsto da molti sin dall’inizio, è conseguenza di un illusorio sforzo di arginare, da parte del Governo, gli effetti “nefasti” del lavoro precario: dopo l’approvazione del provvedimento legislativo di cui sopra, il ministro del Lavoro aveva evidenziato che tali disposizioni «dovevano finalmente sopprimere tutto ciò che mette i bastoni tra le ruote a cittadini e imprese da qui ai prossimi mesi dev’essere semplificato o eliminato del tutto».



Parecchio è stato toccato, salvo stranamente il lavoro non standard: si tratta dei lavoratori con contratto di “Collaborazione organizzate dal committente”, come vengono definite dal 1° gennaio 2016, cioè le ex Co.co.co e Co.co.pro. Desideriamo analizzare e approfondire, perciò, per far chiarezza, gli elementi che caratterizzano questa tipologia di contratti di lavoro, categoria non molto conosciuta e di cui pochi parlano. Questa forma contrattuale annovera parecchie unità di lavoratori, dislocati per lo più nel nord Italia (Lombardia ed Emilia-Romagna in testa). Secondo le norme attuali e nella nuova formulazione data dal Jobs Act (che ha modificato le vecchie Co.co.co e sostituito del tutto le Co.co.pro), si considerano regolari le collaborazioni che rientrano in una di queste casistiche: collaborazioni regolamentate da accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale; attività per le quali è prevista l’iscrizione in appositi albi professionali; collaboratori all’interno degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni; collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni.



Questa configurazione rappresenta di fatto una modalità di occupazione che può essere, in alcuni casi, alternativa al lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato. Tale disciplina, che sostituiva e riformulava la precedente normativa, è stata voluta per introdurre nuovi criteri inerenti i contratti di collaborazione, ma di fatto non ha abolito del tutto le Co.co.pro, introdotte con la legge Biagi, risalente al 2003. Difatti, con le norme del Testo Unico sui contratti di lavoro (2015) è stato eliminato il criterio del progetto legato al rapporto di lavoro, ma non la possibilità di stipulare rapporti di collaborazione. In realtà, si specificava che «si considerano rapporti di lavoro dipendente tutte quelle collaborazioni che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro». Quindi, in sintesi, il contratto si considera di lavoro dipendente se la collaborazione si presenta come un’attività, esclusivamente personale, continuativa e organizzata dal datore di lavoro (committente).

Ma dove stava e sta l’inghippo e il pericolo, in particolare, per la figura del collaboratore? Attingendo ancora da conoscenze specifiche in merito della Felsa-Cisl Lombardia, categoria sindacale che tutela i lavoratori così detti “atipici” o “non-standard” come chiamati però adesso, viene fuori che in molti casi, e non è certo una novità, il contratto a progetto nasconde in realtà rapporti di lavoro dipendente. Per di più, l’esperienza in campo sindacale ci dice che l’abolizione della legge Biagi per il contratto a progetto produce paradossalmente l’effetto di un arretramento di tutele in quei casi di vero rapporto di collaborazione. Due principalmente, gli esempi in merito: in caso di gravidanza la collaboratrice non ha più il diritto di vedersi riconosciuta una proroga al contratto di almeno 180 giorni (mentre prima ne aveva diritto); per quanto riguarda il licenziamento ritorna la possibilità, oggi non contemplata, di licenziare liberamente il collaboratore dando un preavviso stabilito nel contratto individuale.

Dunque, il lavoratore assunto con contratto di “collaborazione organizzata dal committente” è in sostanza assimilabile alla categoria dei lavoratori autonomi e pertanto non è previsto alcun vincolo di subordinazione tra lavoratore e datore di lavoro. Da ciò deriva, in primo luogo, che il lavoratore con questo tipo contratto non ha diritto a ferie retribuite durante lo svolgimento della propria mansione lavorativa, né calcolo del Tfr. Questo non significa che il collaboratore non possa assentarsi da lavoro, ma che, trattandosi di un lavoro svolto in autonomia e stipulato per il raggiungimento di un particolare obiettivo lavorativo, il collaboratore potrà assentarsi senza però pregiudicare il compimento della mansione prevista da tale patto contrattuale, stipulato con il proprio committente.

Per finire poi questa prima disamina è utile mettere in risalto che il datore di lavoro potrà decidere di recedere dal contratto di collaborazione se la sospensione dell’attività lavorativa per malattia/infortunio si protrae per oltre un sesto della durata complessiva del contratto a progetto con durata determinata e 30 giorni nei contratti a progetto a durata determinabile. In caso di maternità, inoltre, le donne sono tutelate dal punto di vista assicurativo come le lavoratrici dipendenti, ma non si può dire altrettanto del punto di vista economico: infatti, mentre le lavoratrici dipendenti hanno diritto a un’indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione, le collaboratrici parasubordinate hanno diritto a un trattamento economico non superiore all’80% del compenso complessivamente ricevuto nei 365 giorni precedenti il periodo di maternità, soltanto se hanno versato contributi per almeno 3 mesi nell’anno precedente.

Ci sembra importante rilevare, però, che l’elemento fondamentale che fa la differenza e rende più appetibile ai datori di lavoro la scelta verso questa tipologia di contratti in alternativa a quelli che riferiti ai dipendenti è la possibilità di un decisivo e conveniente risparmio sugli oneri da costo del lavoro; per spiegarci meglio, l’imprenditore che usa le Co.co.co, per assumere, la maggior parte delle volte, sa che con tali accordi si possono evitare alcune regole normative sfavorevoli e onerose dal punto di vista economico, trovando la maniera di far fronte, decisamente meglio, ad applicazioni e tutele sindacali regolate dai contratti collettivi nazionali: se poi tutto avviene con il beneplacito del legislatore il “gioco” è fatto. In quest’ottica, poi, il livello delle retribuzioni tende inesorabilmente verso il basso, in quanto gli accordi applicati rispecchiano praticamente le modalità del lavoro autonomo, cioè una forma di contrattazione solo fra due parti e del tutto privata, cioè senza ingerenze esterne.

Inoltre, il regime fiscale (Irpef) è del tutto simile al trattamento dei lavoratori dipendenti. Invece per quanto concerne quota contributiva previdenziale la cosa da sapere è la percentuale applicata: tale aliquota è pari al 34,23%, di cui l’11,41% a carico del collaboratore (che viene comunque trattenuta in busta paga e versata alla gestione separata dell’Inps). La legge Fornero nel 2012 aveva previsto un incremento dell’aliquota contributiva ogni anno di un punto percentuale dei Co.co.co e dei Co.co.pro rendendola di fatto uguale (se non superiore) a quella dei dipendenti fino al 2018: si pensa che molto probabilmente l’anno prossimo aumenterà ancora. Il tutto per tentare di scongiurare l’utilizzo del contratto a progetto, il quale, nel 2015, come già rimarcato in precedenza, è stato abrogato dal Jobs Act; inoltre, l’aumento graduale della contribuzione è servito anche per finanziare qualche istituto in più rispetto al passato: 0,72% per maternità e malattia e 0,51% per finanziare la Dis-coll (l’indennità di disoccupazione per questi collaboratori).

Come dicevamo prima, nel Decreto dignità non sono state introdotte modifiche né tanto meno dovrebbero essere previste rispetto a ciò che già è incluso nel Jobs Act. Quello su cui si è concentrato il Decreto dignità è una modifica delle tutele crescenti sul contratto a tempo indeterminato (che nel frattempo sono state rese illegittime dalla Corte Costituzionale) e una drastica modifica al contratto a tempo determinato, che vale sia per l’azienda che per l’agenzia: la durata massima è 12 mesi senza specificare causali di utilizzo, più eventuali altri 12 mesi con la causale Per di più a ogni rinnovo deve essere sempre messa la causale e ci sarà un aumento graduale di contributi da versare all’Inps (quota di disoccupazione Naspi) dello 0,5% sul lordo del lavoratore (oltre all’1,4% già previsto dalla legge Fornero). Questo a un certo punto potrebbe rendere sconveniente all’azienda assumere a tempo determinato.

In un mondo ideale vedremmo le aziende assumere di più a tempo indeterminato, ma siccome siamo in Italia quello che si vedrà sarà il panorama citato da Daniel Zanda, in quanto all’azienda o Agenzia di lavoro interinale non converrà più rinnovare il contratto a quel lavoratore viste le causali e l’aumento dello 0,5%. Quello che è ancora peggio è che ci potrebbe addirittura essere un’esplosione di aperture di partita Iva: tra la flat tax a favore delle partite Iva e gli alti costi del tempo determinato, il risultato potrebbe essere: «Caro il mio lavoratore, visto che sei bravo, ma a tempo determinato mi costi troppo e l’indeterminato non te lo voglio fare, ti apri una bella partita Iva, ti do un bel compenso mensile e poi sono affari tuoi».

Per concludere questa analisi ci chiediamo quali sono (se ce ne sono) in tali accordi occupazionali i vantaggi per la categoria di siffatto tipo di lavoratore? Il “rovescio della medaglia” è dato, a nostro giudizio, solamente dall’effettivo rispetto normativo di genuinità d’intento di attuazione delle norme vigenti, da ambo le parti (committente e collaboratore); in alcuni casi particolari, può essere anche conveniente aderirvi: questo vale soprattutto per le professionalità medio alte spendibili come lavoratori autonomi, in cui l’azienda non ti “costringe” ad aprire partita Iva. Tuttavia, parlando dell’aspetto fondamentale che rende genuino il tutto, deve risultare necessariamente una prestazione di lavoro autonomo, slegata da tutto ciò che è lavoro subordinato (orario di lavoro, postazione fissa, ordini da un capo, regolamento aziendale e anche retribuzione fissa), tranne nei casi di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 81/2015.

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