Con grande attenzione agli aspetti propagandistici, il primo provvedimento legislativo del Governo in carica, il decreto dignità ha preso in considerazione il lavoro. Anzi, come indicato dal nome del provvedimento, la dignità del lavoro. Il tema è sicuramente di grande presa. Sono 10 anni che la crisi ha caratterizzato la nostra economia e la disoccupazione è certamente un dato che sottolinea la difficoltà a operare una decisa svolta economica.



A dire il vero negli ultimi 24 mesi i dati sono cambiati, il tasso di occupazione ha ripreso a crescere e la disoccupazione a diminuire. Il basso tasso di crescita del Pil e della produttività segnalano le difficoltà che permangono nel nostro sistema economico mentre l’occupazione aveva ripreso a crescere in tutto il Paese. Dall’avvio della crisi si è però diffusa un’ideologia che non chiede più di misurare il mercato del lavoro, ma vuole giudicare la qualità del lavoro. In questa ideologia non si è giunti a una definizione univoca di cosa sia un lavoro di qualità, ma si fa riferimento a più elementi, sia aspetti contrattuali che relativi alle tutele e/o diritti di riferimento, ma anche alla corrispondenza del lavoro con il percorso formativo seguito. Risulta così che il giudizio diventa molto soggettivo e sottratto alla regola aurea della misurabilità dei fenomeni economici. Senza possibilità di misurare gli effetti dei propri giudizi o delle definizioni che si danno ai fenomeni economici risulta difficile fare comparazioni. Da qui uno scontro ideologico che solo nel nostro Paese è giunto a creare divisioni profonde sulle ultime riforme operate sul mercato del lavoro. Scelte e posizioni operate ultimamente dal Governo attualmente in carica ripetono, talvolta in forma farsesca, le polemiche di questi ultimi anni.



Per attenerci ai fatti va rilevato che i primi effetti dei provvedimenti introdotti dal Decreto dignità hanno determinato la cancellazione di contratti di lavoro e solo in parte la sostituzione dei lavoratori con altri lavoratori. Succede ciò che molti avevano previsto: se rendi più complicato e/o oneroso il ricorso ai contratti a tempo determinato, sposti un po’ di lavoratori verso l’assunzione, ne fai licenziare una quota perché l’impresa non ama l’incertezza e un’altra parte viene sostituita da altri lavoratori, con identico contratto, per non creare una continuità che potrebbe sfociare in una causa per la stabilizzazione.



Se quanto è previsto per i contatti a tempo determinato viene esteso anche ai contratti simili e intermediati da Agenzie per il lavoro che applicano la somministrazione di lavoro, ciò ha un impatto su tutto il lavoro flessibile. A oggi già 20.000 contratti di somministrazione per tempi determinati sono stati annullati e per fine anno altri 40.000 non saranno rinnovati. Se stimassimo essere questi il 20% del totale dei contratti a termine, avremmo che 300.000 posti di lavoro sono stati messi a rischio dalle nuove norme.

A questi dati inoppugnabili, corroborati dai dati delle comunicazioni obbligatorie dei Centri per l’impiego, non è stato opposto un tentativo di negare i numeri. Solo in qualche caso si è tentato di sostenere che fossero cresciute le condizioni per un aumento di lavoratori che si ritiravano dal mercato. La difesa principale è stata spostare il giudizio dai numeri alla qualità. Quindi si è detto che il risultato era voluto in quanto la somministrazione di lavoro è da ritenersi la forma legale di caporalato. Ossia una forma di intermediazione in cui io faccio pagare al lavoratore una quota per poter lavorare. Così le agenzie specializzate in servizi capaci di facilitare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, servizio che svolgono in tutto il mondo, vengono equiparate alla delinquenza comune che infesta il nostro mercato del lavoro, con forme di schiavismo, soprattutto nel Mezzogiorno.

Si può così cercare di fare sparire i numeri per creare una cortina fumogena ideologica dove il lavoro non è più quello che c’è nella realtà, ma diventa quello che vorremmo che fosse. Così si tolgono tutele a chi le aveva appena conquistate (vedi la tutela della maternità per le lavoratrici a progetto) e si torna a spingere i lavoratori flessibili verso il lavoro autonomo invece di allargare diritti e tutele del lavoro subordinato anche nelle forme più flessibili.

Alle spalle delle decisioni del Governo sbuca così la vecchia ideologia industrialista che vorrebbe il lavoro ancora organizzato come all’avvio della rivoluzione industriale. Oggi è sempre più un lavoro finalizzato a progetti che si esauriscono in un tempo dato, lavoro coordinato e continuativo. È il mutamento in corso nei sistemi produttivi che chiede un lavoro sempre più ricco di conoscenza, formazione e aggiornamento, e insieme nuove forme di tutele e diritti. Il Decreto dignità rinnova invece un’ideologia del lavoro che non tutela i lavoratori e non dà dignità a chi il lavoro lo cerca.

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