Nel suo ultimo articolo Francesco Sibani ha esaminato le conseguenze che avrà, in particolare sul costo del licenziamento, la sentenza con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale il meccanismo a tutele crescenti, fondato soltanto sull’anzianità di servizio, per il calcolo dell’indennità (ora da sei a trentasei mensilità) spettante in caso di licenziamento ingiustificato. Qui può solo precisarsi che, mentre la questione non interessa i rapporti di lavoro non soggetti al decreto legislativo n. 23 del 2015 (per i quali – a prescindere dalla data del licenziamento – continua a trovare applicazione l’art. 18 St. lav. nella versione del 2012 oppure, in base alle dimensioni aziendali, l’art 8, l. n. 604/66), anche per i rapporti di lavoro dei neoassunti dalle imprese di piccole dimensioni non sussiste alcun problema, trovando applicazione la tutela dell’art. 9, d.lgs. n. 23/15, con quantificazione giudiziale dell’indennità comunque oscillante tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità, oltretutto senza il meccanismo incrementale previsto dall’art. 8, l. cit., per i lavoratori con elevate anzianità di servizio. Pertanto resta confermata – a maggior ragione dopo i vincoli appena introdotti per i lavori flessibili – la logica premiale verso i piccoli imprenditori che assumano a tempo indeterminato. Di contro, la sentenza della Corte costituzionale rischia di avere conseguenze debordanti, stante l’effetto moltiplicatore, rispetto ai licenziamenti collettivi che interessano gli assunti dal 7 marzo 2015.
In attesa dell’oramai imminente motivazione della sentenza, è comunque possibile aggiungere qualche ulteriore riflessione in relazione al “prodotto” normativo che risulta dalla combinazione tra la pronuncia di incostituzionalità e le riforme apportate alla disciplina dei lavori flessibili dal decreto “dignità”. In effetti, se prima del decreto legge n. 87/18 l’accesso libero ai lavori flessibili si accompagnava alla certezza, almeno rispetto ai lavoratori neoassunti e in una prospettiva a medio termine, di una tutela indennitaria particolarmente modesta anche per i licenziamenti ingiustificati adottati nelle aziende di maggiori dimensioni, adesso l’assunto sembra completamente ribaltato.
Ragionando in termini preventivi e di soli costi – cioè prescindendo dall’auspicio che i giudici facciano un uso accorto del loro rinnovato potere, collegandolo comunque, seppur senza obblighi matematici, all’anzianità maturata quale basilare criterio di quantificazione ricavabile in via sistematica – le imprese medio-grandi dovrebbero ora scegliere se assumere stabilmente, esponendosi a un rischio economico pari, nel massimo, a trentasei mensilità (e salva l’ipotesi di insussistenza del “fatto materiale” ai fini disciplinari, che è ancora sanzionato con la reintegrazione depotenziata), oppure imbarcarsi nei complicati tentativi di aggirare le strettissime – e a oggi ambigue – maglie che consentono il rinnovo del contratto a termine o della somministrazione di lavoro a tempo determinato, tenendo conto che, in caso di violazione dei nuovi limiti introdotti per queste tipologie flessibili, alla sanzione indennitaria fino a dodici mensilità si aggiunge la conversione del rapporto a tempo indeterminato.
Il raffronto lascia presumere che, nei limiti quantitativi consentiti e salvo diversa convenienza collegata ai costi della formazione, le imprese non seguiranno nessuna delle due strade, praticando invece un selvaggio turnover di lavoratori flessibili nel margine temporale annuale, tuttora sottratto a vincoli di giustificazione.