Il Contratto collettivo nazionale del lavoro (Ccnl) è un accordo tra i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro. Solitamente si riferisce a uno specifico settore e disciplina i rapporti tra datore di lavoro e lavoratori che operano in quel determinato settore. Dal punto di vista giuridico il contratto collettivo non è altro che un normale contratto e si applica, dunque, solo ai firmatari del medesimo, il che significa che si applica solo alle aziende che aderiscono alle associazioni dei datori di lavoro che lo hanno firmato e ai lavoratori che aderiscono a uno dei sindacati firmatari del contratto collettivo stesso.



Tuttavia, in realtà, il raggio di applicazione dei contratti collettivi è molto più ampio. Di solito, infatti, quando l’azienda e il lavoratore firmano il contratto individuale di lavoro, inseriscono all’interno dell’accordo una clausola con cui rimandano a un determinato Contratto collettivo nazionale di lavoro. In questo caso, dunque, anche se azienda e lavoratore non aderissero alle associazioni che hanno firmato il contratto collettivo, quest’ultimo sarebbe comunque applicato al rapporto di lavoro, per espressa volontà delle parti.



Ma come incidono i contratti collettivi nel mercato del lavoro? I contratti collettivi di lavoro nascono per garantire condizioni eque, prevedibilità e stabilità, sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. I lavoratori vengono protetti dall’arbitrarietà e la loro posizione e i loro diritti vengono rafforzati. I contratti collettivi di lavoro, infatti, disciplinano le condizioni di lavoro in modo vincolante e definiscono condizioni di lavoro minime e migliori. Essi regolamentano i diritti quali la tredicesima mensilità, orari di lavoro più brevi, giorni festivi remunerati supplementari, soluzioni di prepensionamento e tanto altro ancora.



Dal punto di vista del datore di lavoro, invece, i contratti collettivi tendono a garantire condizioni uguali per tutte le imprese e impediscono, o dovrebbero impedire, alla concorrenza di praticare il cosiddetto “dumping salariale“. Ciò che preoccupa maggiormente il nostro Paese, a fronte della contrattazione collettiva, è l’attuale “giungla dei contratti“. Il numero dei contratti collettivi continua infatti a lievitare a dismisura, ma solo la minoranza di questi è da considerarsi “regolare”. La maggior parte, infatti, rientra nella categoria dei cosiddetti “contratti pirata” che presentano soprattutto condizioni economiche al di sotto degli standard contrattuali dei settori di riferimento.

Si parla tecnicamente di accordi negoziati e poi firmati dalle più variegate rappresentanze datoriali e sindacali minori, prive di una reale rappresentatività e consistenza numerica. Ci troviamo, quindi, difronte a contratti al ribasso siglati da associazioni datoriali non rappresentate con sindacati, anch’essi privi di effettiva rappresentanza. Questo sta a significare che gran parte dei Ccnl sono irregolari, presentano condizioni peggiorative per i lavoratori, specie per risparmiare sul costo del lavoro, e fanno concorrenza sleale a imprese e associazioni datoriali corrette.

Tutto questo ha un effetto, sul mercato del lavoro, disastroso in quanto si innesca una “concorrenza al ribasso” che si ripercuote sulla pelle dei lavoratori i quali dovrebbero essere, invece, maggiormente tutelati proprio dai Ccnl.

È da ricordare, però, come sul punto sia intervenuto l’Ispettorato nazionale del lavoro, con la circolare n. 3 del 2018, sottolineando che, pur in presenza di un principio di “libertà sindacale”, non si può superare il requisito della maggiore rappresentatività. In termini comparativi, posto che, da un punto di vista giuslavoristico, la produzione di determinati effetti è strettamente connessa a detto fondamentale principio. Si rileva, infatti, che l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni comparativamente più rappresentative è elemento necessario per il godimento dei “benefici normativi e contributivi“, ai sensi dell’art. 1, comma 1175, L.296/2006.

Lo stesso D.Lgs. n. 81/2015 ribadisce il ruolo chiave ricoperto dai Contratti collettivi nazionali siglati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative, chiarendo che per “contratti collettivi” non possono che intendersi quelli sottoscritti dai soggetti legittimati in base al requisito della rappresentatività. Nonostante ciò, è vano il tentativo dell’Ispettorato nazionale del lavoro di evidenziare i vantaggi derivanti dall’applicazione di contratti sottoscritti dalle associazioni sindacali “maggioritarie”; tale atteggiamento, infatti, non incide in maniera significativa sulle scelte datoriali, producendo così scarsi effetti rispetto a quelli sperati, ovvero la riduzione del cosiddetto “dumping contrattuale“.

Per la maggiore tutela del lavoratore e l’eliminazione, o quantomeno diminuzione, della sleale concorrenza al ribasso, la soluzione potrebbe essere l’introduzione di un salario minimo per tutti i lavoratori (argomento dibattuto negli ultimi mesi); una retribuzione base oraria, giornaliera o mensile a cui ha diritto il lavoratore di qualsiasi settore, retribuzione che attualmente varia in base al settore di riferimento, e quindi al contratto collettivo applicato, ed è lasciata alla contrattazione fra le parti sociali.

In conclusione, si può evincere, dai dati degli ultimi anni, che la contrattazione collettiva ha un enorme potenziale e sarebbe di inestimabile valore per il mercato del lavoro nel nostro Paese, a oggi, se fosse rivista, riorganizzata e innovata su alcuni punti come, ad esempio, il riconoscimento della validità solo per i contratti firmati da soggetti, organizzazioni sindacali e associazioni datoriali, comparativamente più rappresentativi; questo accompagnato da una più stretta collaborazione tra Inps e Cnel per la condivisione delle rispettive banche dati al fine di evitare il proliferarsi di “contratti pirata” con un non corretto versamento dei contributi da parte dei datori di lavoro e una non corretta e completa tutela del lavoratore, tutto in funzione della salvaguardia dell’obiettivo cardine della contrattazione collettiva, garantire equità e giustizia sociale nel mercato del lavoro, oltre che preservare il valore dell’autonomia collettiva.

In quest’ottica, oggi, è assolutamente indispensabile porsi in modo innovativo e rispondere concretamente alle esigenze del mercato con una “contrattazione di qualità”, che oltre a disciplinare i classici istituti tipici della contrattazione deve fornire tutti gli strumenti utili e efficaci in termini di flessibilità, produttività, nuove mansioni e nuove forme di classificazione del personale, formazione, politiche attive del lavoro e welfare.