Anche il Governo giallo-verde si è accorto che è possibile e utile “fare cassa” con la riforma pensioni e realizzare entrate immediate e importanti. La gallina da spennare si acquatta nel pollaio della rivalutazione automatica al costo della vita. Negli ultimi anni l’istituto della perequazione è stato più volte manomesso rispetto a quanto previsto dal regime ordinario stabilito dalla legge n.388/2000, ovvero indicizzazione: in misura piena, cioè al 100%, per le pensioni fino a tre volte il trattamento minimo; al 90% per le fasce di importo comprese tra tre e cinque volte il trattamento minimo; al 75% per i trattamenti superiori a cinque volte il minimo.
L’ultimo intervento in ordine di tempo è contenuto nella Legge di bilancio per il 2019 che sarà varata entro la settimana. La rivalutazione “piena” viene assicurata solo per le pensioni con importo fino a 1.521 euro (vale a dire tre volte il trattamento minimo). Per le pensioni superiori a tale importo, sono previste sei fasce di quote di reddito: l’adeguamento all’inflazione sarà del 97% per gli assegni con importi compresi tra 1.522 e 2.029 euro. La terza fascia prevede un’indicizzazione del 77% fino a un importo di 2.537 euro, la quarta una rivalutazione del 52% fino a un importo di 3.042 euro. La quinta fascia prevede un adeguamento del 47% fino a pensioni con importo non superiore a 4.059 euro, la sesta fascia un’indicizzazione del 45% fino a 4.566 euro (vale a dire nove volte il trattamento minimo). Infine, la settima e ultima fascia, rivaluterà l’importo pensionistico solamente del 40% e verrà applicata per tutte le pensioni con importo superiore a 4.566 euro mensili.
Al termine del triennio, il nuovo schema di indicizzazione su sette fasce dovrebbe decadere per tornare alle tre fasce previste dalla legge 388/2000. In realtà, il ripristino della rivalutazione su tre fasce sarebbe dovuto entrare in vigore dal 1° gennaio prossimo, ma il Governo ha deciso di rinviare l’operazione di un triennio (ricavando dalla revisione su sette fasce entrate complessive per oltre 2 miliardi che si aggiungono agli oltre 300 milioni derivanti dai tagli alle cosiddette pensioni d’oro). Quello sotto riportato è lo schema della perequazione automatica che sarebbe dovuto entrare in vigore l’anno prossimo: 1,10% (ossia l’aliquota intera) sulla fascia di pensione mensile sino a 1.523 euro (3 volte il minimo di dicembre 2018); 0,99% (90% dell’incremento) sulla fascia compresa tra 1.523 e 2.538 euro (5 volte il minimo 2018); 0,825% (75% dell’aliquota di aumento) sulla quota mensile eccedente 2.538 euro.
Ma qual è stato il percorso accidentato della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici?
2007 e anni precedenti. Indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 3 volte il trattamento minimo (fino a 1.382,91 euro lordi mensili); 90% sulla quota di pensione compresa tra 3 e 5 volte il trattamento minimo (da 1.382,92 a 2.304,85 euro lordi mensili); 75% sulla quota di pensione superiore a 5 volte il trattamento minimo (da 2.304,86 euro lordi mensili).
2009-2010. Indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 5 volte il trattamento minimo (fino a 2.217,80 euro lordi mensili nel 2009 e 2.288,80 euro nel 2010); 75% sulla quota di pensione superiore a 5 volte il trattamento minimo (da 2.217,81 euro lordi mensili nel 2009 e da 2.288,81 euro nel 2010).
2011. Terminato il triennio previsto di ampliamento della quota di pensione coperta integralmente dall’inflazione, si era tornati alla situazione vigente nel 2007. Ma per breve tempo.
2012-2013. Il Governo Monti, con la manovra “salva Italia” di fine 2011, bloccò la perequazione per le pensioni d’importo superiore a 3 volte il minimo per gli anni 2012 e 2013. Pertanto, indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 3 volte il trattamento minimo (fino a 1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013). Le pensioni di importo superiore a 3 volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione.
2012-2016. Il d.l. n. 65/2015 (convertito dalla l. n. 109/2015), emanato in seguito alla sentenza della Corte costituzionale che aveva bocciato il “blocco” dell’indicizzazione per il biennio 2012-2013 delle pensioni superiori a 3 volte il trattamento minimo, ha sostanzialmente riformulato le regole come segue.
Per gli anni 2012 e 2013:
• 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
• 40% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
• 20% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
• 10% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
• nessuna rivalutazione oltre 6 volte il minimo.
Per gli anni 2014 e 2015:
• 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
• 8% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
• 4% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
• 2% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
• nessuna rivalutazione oltre 6 volte il minimo.
Per il 2016:
• 100% dell’Istat fino a 3 volte il minimo Inps;
• 20% oltre 3 e fino a 4 volte il minimo;
• 10% oltre 4 e fino a 5 volte il minimo;
• 5% oltre 5 e fino a 6 volte il minimo;
• nessuna rivalutazione oltre sei volte il minimo.
Dal 2017 doveva essere ripristinata l’indicizzazione precedentemente in vigore, ossia l’indicizzazione al 100% del costo vita sulla quota di pensione fino a 3 volte il trattamento minimo; 90% sulla quota di pensione compresa tra 3 e 5 volte il trattamento minimo; 75% sulla quota di pensione superiore a 5 volte il trattamento minimo. Ma la Legge di stabilità 2016 aveva prorogato il regime provvisorio in vigore nel 2015 a tutto il 2018. E alla scadenza il Governo giallo-verde ci ha infilato lo zampino con l’arzigogolato schema a sette fasce.