Il mercato del lavoro sta cambiando repentinamente, in Italia e non solo. Cambiamenti – tecnologici, organizzativi, formativi – che costringono non solo i lavoratori, ma anche le Agenzie per il lavoro ad adeguarsi, dovendo fronteggiare, sempre più spesso, novità legislative non sempre efficaci e positive, come il recente decreto Dignità. Come rispondere alle nuove sfide? Come fare un’intermediazione efficiente tra domanda e offerta di lavoro? Come si aiutano i giovani a trovare occasioni di impiego? Lo abbiamo chiesto a Stefano Colli Lanzi, fondatore e Ceo di Gi Group, la prima multinazionale italiana nei servizi per il lavoro, che proprio in questo 2018 ha celebrato i suoi primi 20 anni di attività.



Il mondo del lavoro è alle prese con sfide epocali: innovazioni tecnologiche, nuove professioni, mutamenti delle strategie organizzative, nuove forme di gestione del personale, modernizzazione delle regole del lavoro. Che ruolo può giocare un’agenzia per il lavoro di fronte a questi fattori in continua e rapida evoluzione?



Di fronte a scenari dai cambiamenti sempre più repentini la flessibilità sarà ancora più richiesta dalle aziende e le agenzie per il lavoro (Apl), al di là del quadro normativo più o meno favorevole, dovranno continuare nel loro ruolo di “camere di compensazione” in grado di assorbirla, dando ai lavoratori sicurezza e continua occupabilità. La specializzazione sulle competenze di servizio e la formazione continua saranno, quindi, leve imprescindibili di sviluppo: solo chi saprà davvero creare valore e risolvere bisogni complessi sarà premiato dal mercato.

La disintermediazione sembra dominare molti ambiti. Anche il mercato del lavoro?



Il mercato del lavoro, in realtà, ha un forte bisogno di intermediari e ci sono davvero ancora ampi margini di miglioramento nel ruolo delle Apl. Mai come in questo periodo, pertanto, Gi Group crede nel ruolo delle agenzie per il lavoro che, sempre di più, si caratterizzano per essere operatori essenziali per sviluppare il mercato del lavoro attraverso servizi di valore, sia per le aziende che per le persone. Come ampiamente dimostrato dai fatti, lungi dall’essere portatrici di precariato, le Agenzie per il lavoro contribuiscono, infatti, a migliorare l’incontro tra domanda e offerta, a massimizzare le opportunità di impiego di tutte le fasce di lavoratori e a costruire percorsi di sviluppo di carriera attraverso la formazione e il supporto alla ricollocazione, assicurando, al tempo stesso, trasparenza e rispetto di norme e contratti.

Il 2018, in Italia, ha segnato un primo smantellamento del Jobs act e l’introduzione del decreto Dignità. Che impatti hanno avuto sulle dinamiche del mercato del lavoro?

Fino a luglio avevamo un sistema di norme per il lavoro tra i migliori al mondo, il secondo più apprezzato dopo quello olandese, particolarmente favorevole alla realizzazione della flexicurity. Aveva anche il pregio di rendere il contratto a tempo indeterminato più attrattivo e meno vincolante e avevamo anche abbattuto il contenzioso. Il decreto Dignità è riuscito, con pochi ritocchi, a ribaltare in negativo quanto costruito con fatica negli anni passati, complicando l’intero quadro normativo senza produrre alcun beneficio. Il suo impatto è stato molto negativo sul lavoro in somministrazione, che si è trovato a dover gestire quattro regimi normativi diversi in meno di quattro mesi e che, invece di essere demonizzato, andrebbe valorizzato per il valore che oggi può portare alla crescita dell’efficacia e della compliance del mercato. Il peggioramento dei dati sull’occupazione e sul Pil è la conseguenza delle scelte fatte ed è l’effetto logico dei provvedimenti sul lavoro che sono stati presi questa estate.

In un momento nel quale tutta Europa registra un rallentamento, noi rischiamo quindi di pagare il prezzo più alto di tutti in termini di decrescita?

Le leggi virtuose sono quelle win-win, capaci di portare benefici tanto alle aziende quanto alle persone. Il decreto Dignità, invece, è loose-loose; fa perdere tutti, perché irrigidisce le possibilità di assunzione per le imprese con la reintroduzione delle causali, scritte tra l’altro in modo da essere inapplicabili, e non aggiunge tutele significative per le persone. L’unico effetto certo è già oggi quello di aumentare il rischio di contenzioso giudiziario, contribuendo a rendere il mercato meno efficiente e meno capace di offrire opportunità a chi cerca lavoro, oltre a provocare la fuga degli investitori.

Anche la formazione 4.0 ha subìto una battuta d’arresto. Quanto contano oggi la formazione e l’acquisizione di soft skills?

Sia Industria 4.0 che il digitale stanno portando grandi opportunità e allo stesso tempo evidenziando un problema di base: lo skills shortage, ovvero la penuria o mancanza di competenze richieste dalle aziende, che conseguentemente provoca un mismatch, una mancanza di allineamento, tra domanda e offerta. Rispondere a questo problema nel modo tradizionale non funziona più; diventa spesso impossibile cercare profili che non esistono e che la scuola non forma. Di fronte a un sistema bloccato e ancora lento rispetto alle mutate richieste che vengono dalle aziende, la risposta è che bisogna creare questi profili.

In che modo?

Aggiungere e offrire formazione specialistica è la sfida che pone il mercato e alla quale anche noi stiamo cercando di rispondere proprio per colmare “l’ultimo miglio” sulle competenze espressamente richieste al fine di rendere più impiegabili le persone. Il mercato è, infatti, diventato candidate driven.

Che cosa significa?

Che la competizione tra Apl si fa sulla capacità di attrarre i candidati più richiesti, di offrire loro proposte interessanti, prospettive di crescita, continua occupabilità. Anche l’acquisizione di soft skills da parte dei candidati è diventato oggi un fattore imprescindibile per l’employability, perciò sosteniamo convintamente tutti i percorsi di formazione duale in grado di unire precocemente il mondo della scuola a quello del lavoro, come l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro.

In Italia i tassi di disoccupazione giovanile sono ancora molto elevati rispetto alla media europea. Che soluzioni si possono adottare per cercare di colmare questo gap?

In Italia c’è un problema di competenze e di orientamento dei giovani al lavoro. Molti di loro sono inattivi, perché la scuola non è riuscita ad attrarli. In questo momento, invece, il mercato necessita di profili con una spiccata specializzazione che la scuola spesso non è in grado di formare. Per questo come Gi Group abbiamo avviato da un paio d’anni le Gi Group Academy, progetti di formazione intensivi per dotare le persone di skills più spendibili. Tra il 2017 e il 2018 ne abbiamo svolte 150, formando 1.300 persone con un tasso di inserimento in azienda dell’85%. Al tempo stesso abbiamo adottato un approccio nazionale e specializzato per la ricerca di profili di maggior esperienza, ingegneri, periti tecnici e informatici prima di tutto.

Gi Group celebra nel 2018 i suoi primi 20 anni di attività. Guardando a questi primi 20 anni, che bilancio si sente di fare?

L’11 febbraio 1998 ci veniva rilasciata l’autorizzazione provvisoria all’esercizio dell’attività di fornitura di lavoro temporaneo dal ministero del Lavoro. Gi Group ha chiuso i suoi primi 20 anni con il bilancio 2017 a 2 miliardi di euro di fatturato a livello mondiale, risultato raggiunto grazie a oltre 3.300 dipendenti di struttura e 500 filiali che hanno consentito di supportare 20mila aziende e oltre 100mila lavoratori Fte. Nel corso degli anni ci siamo evoluti da operatore locale e generalista sul lavoro temporaneo a provider globale con una gamma diversificata di soluzioni Hr. Oggi la nostra offerta può contare su un grado di specializzazione e differenziazione elevato, non fine a sé stesso, ma che ha come obiettivo quello di rispondere ai bisogni sempre più complessi di aziende e persone e, conseguentemente, di creare valore.

E il bilancio 2018 come si chiude per Gi Group?

Nonostante un rallentamento della crescita nel secondo semestre, prevediamo di chiudere il 2018 con un fatturato di 2,3 miliardi di euro e una presenza diretta in 28 Paesi. Di quest’anno ricordo, in particolare, le ultime due acquisizioni: Grafton Recruitment in Centro Europa e Marks Sattin nel Regno Unito e in Irlanda, con cui siamo potuti entrare nell’ambito del recruitment specializzato e più precisamente nel segmento professional. Qui i candidati hanno caratteristiche peculiari: sono tanti prima di tutto, e quindi non stiamo parlando di una semplice nicchia, e sono per lo più candidati passivi, ovvero hanno già un lavoro e non sono alla ricerca attiva di una nuova occupazione. Candidati sui quali, quindi, è necessario fare un lavoro di attraction, utilizzando diverse leve. Una testimonianza della nostra volontà di investire in quei servizi dove è centrale la capacità di costruire un rapporto qualitativo con il candidato.

Quali sono, invece, gli obiettivi di Gi Group per i prossimi anni?

Per i prossimi anni il Gruppo intende proseguire su questa traiettoria di crescita, aumentando il peso del business oltreconfine dal 50 al 70%. Dal punto di vista dell’offerta punteremo sempre di più sulla verticalizzazione e sulla diversificazione delle soluzioni. Nei prossimi 5 anni ci siamo dati l’obiettivo di raggiungere i 5,5 miliardi di euro di fatturato, che ci consentirebbe di posizionarci tra i primi 5 player di settore in Europa e tra i primi 10 del mondo. Una dimensione che ci porterebbe a poter giocare tutte le partite globali, mantenendo tuttavia una certa agilità operativa. Questa crescita sarà in parte organica, ma passerà anche attraverso ulteriori acquisizioni con l’obiettivo di completare la nostra presenza nel mondo.

Il progetto della quotazione in Borsa è ancora valido?

Avendo accantonato al momento il progetto di quotazione per l’eccessiva incertezza dei mercati, l’M&A è uno degli strumenti che utilizzeremo per raggiungere il target dei 5,5 miliardi di euro. Le acquisizioni saranno fatte con la logica di consolidare la nostra presenza nei vari Paesi dove già siamo e di entrare in mercati dove adesso non siamo presenti, ma che sono importanti: uno su tutti il Nord America. La logica, inoltre, sarà quella seguita sia per Grafton che per Marks Sattin: acquisire servizi che siano complementari ai nostri, che completino la nostra proposta e che allo stesso tempo possano portare know how al gruppo e generare ulteriore valore per il mercato.

(Marco Biscella)