Il nostro ordinamento tutela la lavoratrice-donna in prossimità del matrimonio disponendo all’art. 35 del decreto legislativo 198/2006 la nullità della “risoluzione del rapporto delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio” e dei licenziamenti “attuati a causa di matrimonio”; e specificando altresì che “si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio”.
Tali norme, che ricalcano quelle contenute in una precedente legge risalente al 1963, parlano espressamente di “lavoratrici“, con la conseguenza che sembrerebbe pacifico doversi escludere qualsiasi estensione della tutela anche ai lavoratori uomini; e non a caso per oltre mezzo secolo così è stato nell’unanime interpretazione della giurisprudenza. Senonché alcune recenti pronunce giudiziali (Tribunale di Milano 3.6.2014 e 5.9.2016; Tribunale di Roma 16.1.2017, Trib. Vicenza 24.5.2016 e Trib. Napoli 15.12.2016) hanno affermato che il licenziamento disposto nel periodo intercorrente dal giorno delle pubblicazioni di matrimonio all’anno successivo alla celebrazione si presume attuato “a causa di matrimonio”, ed è perciò nullo, anche se intimato al lavoratore uomo; e ciò in forza del principio di parità di trattamento tra uomo e donna introdotto dalla Direttiva 76/207/CE che all’art. 2 dispone che “il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia”.
In particolare, secondo il Tribunale di Milano, “l’uso del femminile è solo un retaggio del passato” fondato sulla considerazione che solo la donna era destinataria di benefici connessi alla gravidanza e alla nascita di figli, e che dunque solo la donna poteva essere vittima di ritorsione da parte di quel datore di lavoro che, non volendo riconoscere in futuro detti benefici, risolveva “in anticipo” il rapporto di lavoro. Il divieto di licenziamento della lavoratrice a causa di matrimonio è stato, infatti, storicamente introdotto al fine di evitare che il datore di lavoro potesse risolvere il rapporto in vista dei prevedibili costi/disagi connessi a un’eventuale maternità. Nei lavori preparatori della legge n. 7 del 1963 (poi sostituita dalla D.lgs. n.198/06) si legge espressamente che, a seguito della normativa a tutela della maternità (legge n. 860 del 1950), si “era diffusa la prassi dei licenziamenti delle donne in caso di matrimonio”.
Secondo il Tribunale di Milano, tuttavia, il quadro sarebbe ormai completamente cambiato, essendo state introdotte alcune norme ex D.lgs. 151/2001 che riconoscono anche al lavoratore padre alcuni dei diritti ritenuti da sempre prerogativa delle sole lavoratrici madri, tra cui il “congedo di paternità” (diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre) e i “congedi parentali” (diritto di astenersi dal lavoro per un periodo massimo di sei mesi per ogni bambino nei primi dodici anni di vita, e a non essere licenziato in caso di fruizione del congedo di paternità).
In conclusione, secondo le predette sentenze, alla luce dell’evoluzione legislativa in materia di tutela della maternità e paternità, una distinzione tra donna e uomo non avrebbe più ragion d’essere per quanto attiene all’istituto della nullità del licenziamento per matrimonio.
Le decisioni citate rispecchiano senza dubbio un mutamento non solo giuridico, ma anche sociale secondo cui la cura dei figli non è più affidata esclusivamente alla donna, ma è condivisa con l’uomo. D’altra parte non si può negare che vi sia tuttora una notevole differenza – sia sul piano normativo che su quello fattuale – tra lavoratrice madre e lavoratore padre: la nascita di un figlio per una donna ha sicuramente un impatto maggiore sullo svolgimento del rapporto di lavoro. E invero, posto che il periodo di gravidanza concerne la sola donna, è solo con riguardo a essa che opera il divieto di licenziamento, nonché la preclusione di adibire le lavoratrici durante la gravidanza a lavori pericolosi, faticosi e insalubri e il divieto di far lavorare le donne nel cosiddetto “periodo di astensione obbligatoria” (complessivamente cinque mesi che possono essere aumentati nel caso di lavori gravosi o pregiudizievoli o nel caso di complicazioni della gravidanza).
Le pronunce citate pongono poi ulteriori interrogativi: il divieto di licenziamento a causa di matrimonio deve essere esteso anche alle nuove unioni civili? E alle unioni civili tra persone dello stesso sesso? La legge recentemente introdotta (L. n. 76/2016) si limita a stabilire genericamente (art. 1, comma 20) che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio si applicano anche a ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, ponendo su questo aspetto ulteriori dubbi interpretativi. Il rischio è quello di un’estensione soggettiva della tutela per matrimonio così generale da diventare eccessivamente gravosa per le imprese ed essere poi abrogata dal Legislatore; tenuto anche conto che, differentemente dai tempi di promulgazione della l. n. 7/1963, i lavoratori e le lavoratrici possono contrarre anche vari matrimoni e/o unioni civili durante loro “vita lavorativa”.
Non sarebbe peraltro il primo caso. Come forse qualcuno ricorderà, nel 2005 la Corte di giustizia europea (con sentenza del 21.7.2005) aveva dichiarato incompatibile con il principio di parità tra i sessi sancito dalla normativa comunitaria la norma che prevedeva il beneficio della tassazione con aliquota ridotta delle somme erogate dal datore di lavoro in occasione dell’interruzione del rapporto di lavoro alle lavoratrici ultracinquantenni e ai lavoratori ultracinquantacinquenni (D.lgs. n. 314/1997). Il Legislatore italiano, anziché uniformare la disposizione fiscale di favore ai principi statuiti dalla Corte europea, l’ha abrogata per tutti con il cosiddetto “Decreto Bersani” (D.L. n. 223/2006 convertito in L. n. 248/2006).