Negli ultimi giorni l’opinione pubblica sembra interessata a smaltire l’overdose di proposte elettorali mirabolanti al limite della presa in giro. Anche gli organi d’informazione (più la carta stampata che le tv, le quali vivono l’ossessione dell’effetto-zapping se i partecipanti ai talk show si dilungano troppo) si sono resi conto che è venuto il momento di fornire un’idea di massima sui costi delle promesse elettorali, nella consapevolezza che la sostenibilità è la principale premessa della possibilità di attuazione. Le pensioni occupano un posto in prima fila. Le stime – sempre problematiche per l’incompletezza e sovente per la genericità di quanto è scritto, in materia, nei programmi – mettono comunque in evidenza l’onerosità delle proposte delle più importanti forze politiche.
È questa una conclusione da trarre sulla base di quanto è già comprensibile; il che getta un’ombra fosca sulle probabili conseguenze finanziarie di ciò che rimane nel vago. Ed è un guaio. Ammesso e non concesso che la questione-pensionati (al di là del loro numero in qualità di elettori) sia una priorità (per chi scrive non lo è), è palese e sconcertante la sproporzione tra le risorse impiegate per questa parte di popolazione (che si aggiunge a quanto già stanziato durante la legislatura) e quelle riservate all’occupazione, giovanile in particolare. Ciò premesso (il discorso, come vedremo, è diverso per quanto riguarda il programma del Pd) nella ricostruzione degli oneri si possono notare alcune “trappole” nelle proposte del M5S, di Lega e Forza Italia, destinate a produrre nuovi oneri.
Per esempio: è presumibile che per i trattamenti di vecchiaia relativamente all’età delle lavoratrici si torni ai requisiti in vigore prima della riforma del 2011; è altresì presumibile che scompaia dall’orizzonte l’aggancio automatico all’attesa di vita. Il che comporterebbe “danni emergenti” e “lucri cessanti” (ovvero maggiore spesa nell’immediato e minori risparmi nel futuro) insostenibili. Ci sono, poi, alcune “volpi sotto le ascelle” a proposito dei “ricchi premi e cotillons” che Forza Italia promette per le pensioni minime: non è chiaro se i criteri saranno gli stessi del “milione” del 2001 (limitato a coloro che non percepivano altri redditi oltre la pensione) oppure se diventerà una misura per tutti senza rendersi conto che garantire mille euro al mese a prescindere dai contributi versati, non solo manda a quel paese il calcolo contributivo, ma incoraggia l’evasione. Bisognerà pure cominciare a dire che molti dei pensioni al minimo possono essere anche l’effetto di una vita lavorativa poco attenta al versamento dei contributi previsti.
Quanto alle casalinghe: si parla dei milioni di donne che svolgono lavoro di cura non retribuito (in età compresa tra i 60 e i 65 anni attribuendo loro un assegno mensile di mille euro) oppure delle poche centinaia di casalinghe iscritte o già in pensione nell’apposito fondo presso l’Inps, (che finora è risultato un clamoroso fallimento)? Il problema merita di essere chiarito, perché le casalinghe che saranno soggette al beneficio berlusconiano dovranno pure essere iscritte da qualche parte, versare dei contributi e sottoporsi alla maturazione di preordinati requisiti. Oppure il governo di centrodestra pensa di andare casa per casa portando seco il libretto degli assegni?
Chiunque può osservare, proseguendo, che le proposte del M5S e quelle della Lega sembrano scritte usando la carta carbone o, se vogliamo, essere più moderni, la fotocopiatrice. Entrambe le proposte non si curano del trattamento di vecchiaia (che è un aspetto centrale per il pensionamento delle lavoratrici), ma puntano a ripristinare la pensione di anzianità con i requisiti esistenti prima della riforma Fornero (e ovviamente immortalati e immodificabili nel tempo). In sostanza viene re-innescata la miccia sotto il barile di tritolo su cui siede il sistema pensionistico italiano, se solo si pensa che nel Fpld nei flussi del 2017 vi sono state 180 pensioni anticipate per ogni 100 di vecchiaia e che la spesa per lo stock delle prime è doppia di quello delle seconde (60 miliardi contro 32 miliardi nel Fpld e in media 24mila euro annui contro 11mila).
Questo trend non è destinato a esaurirsi a breve, ma a subìre un’accelerazione, perché da adesso al 2030 continuerà l’accesso alla pensione dei baby boomers, i quali saranno in grado – per come hanno potuto stare sul mercato del lavoro, entrandovi da giovani e restandovi in modo continuativo – di arrivare alla soglia di 41 anni di versamenti o a quota 100 (sommando età ed anzianità) intorno ai 60-61 anni di età (soprattutto se finirà in cavalleria l’aggancio all’attesa di vita come tutto lascia credere, in base alle proposte).
Al Pd va riconosciuto che – al di là delle pur evidenti concessioni elettorali – il suo programma in materia previdenziale si muove lungo il solco tracciato nella legislatura per rispondere all’offensiva scatenata contro la legge Fornero: vengono tutelati con requisiti più favorevoli quelli che presentano una condizione di particolare bisogno da anziani (è la logica dell’Ape e del Rita). È sicuramente una trincea difficile da difendere, perché ci saranno spinte ad allargare il numero dei lavori disagiati e delle categorie protette e, pertanto, delle deroghe. Da segnalare poi la proposta dem per una pensione di garanzia per i giovani (con costi ovviamente differiti), come previsto nel patto sottoscritto a suo tempo con i sindacati.